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L'Afghanistan alle olimpiadiDi: BoxemaccheroniL'ultimo filo di luce taglia l'aria polverosa che circonda, come ogni cosa in questa stagione, lo stadio Ghazi di Kabul. L'unico di tutto il paese, iniziato prima di Zaher Shah e terminato con Daud, il cognato del re che spodesto' la corona negli anni Settanta per instaurare la repubblica. Fu l'ultimo sprazzo di pace per questo paese sprofondato da quasi trent'anni nelle secche di un conflitto con attori in continuo cambiamento. E fu l'ultimo sprazzo di vitalita' per lo sport in Afghanistan. La guerra contro l'Urss prima e le rigide regole dei talebani poi, chiusero il sipario definitivamente su una stagione giovane e troppo fragile. Adesso pero' le cose sono cambiate. Alle sei di sera o alla mattina presto gli atleti e le atlete afgane tornano a calpestare il fondo malridotto di uno stadio trasformato, durante i talebani, nel macabro palcoscenico della giustizia sommaria: impiccagioni e lapidazioni a cielo aperto con una folla per lo piu' obbligata ad assistervi. Tra questi giovani sportivi che si allenano sullo spiazzo centrale, e persino negli angusti corridoi dello stadio, c'era fino a qualche giorno fa anche Mahboba Ahadyar, classe 1985, l'unica donna tra i quattro atleti afgani che quest'anno saranno a Pechino per le Olimpiadi. Adesso Mahboba e il suo collega Massud Azizi, centometrista, sono in Malaysia ad allenarsi. Il piccolo paese dell'Asia sudorientale e', con la Corea del Sud, l'anfitrione che prepara questi quattro atleti che in agosto ripeteranno la prova che ad Atene nel 2004 ha riammesso l'Afghanistan tra le nazioni che partecipano ai giochi nati ad Olimpia. Se Mahboba e Massud si stanno allenando per correre, Nasar Amad Bahawi, classe 1985, e Rohellah Nekpa classe 1987, specialisti di takewondo, provano con gli allenatori coreani a tentare il colpo: portare a casa una medaglia visto che, in questa disciplina, gli afgani hanno conquistato nel 2007 un argento agli ultimi mondiali della specialita'. Proprio in Cina. A raccontarlo e' Sayed Mahmood Zia Dashti, il giovanissimo vicepresidente del Comitato olimpico nazionale. La sua storia personale e' altrettanto singolare quanto quella della 22enne Mahboba, selezionata dopo la sua recentissima vittoria nella maratona aperta di Kabul: cinque chilometri di corsa in cui e' arrivata prima. "Per sua e nostra fortuna – dice Sayed mentre osserviamo alle pareti del suo studio medaglie e coppe – la famiglia e' abbastanza aperta. Voglio dire che per una ragazza non e' normale fare sport e spesso i genitori si mettono di traverso". Nulla e' scontato in effetti: la selezione di Mahboba e' stata una sorta di invenzione creativa e anche allenarsi e' un punto di domanda: poche palestre e scarse risorse tecniche e finanziarie e dunque lo sport si fa come e dove capita. In giardino, in campagna e appunto qui, al Ghazi, dove, in una giornata tipo, si può assistere in contemporanea a una seduta d'allenamento delle squadre di lotta greco-romana, karate o kickboxing mentre sul campo si svolge un incontro di calcio e, ai margini della pista di atletica, un campionato giovanile di boxe. In una specie di tunnel, un monolocale di pietra, si preparano invece gli atleti della nazionale di sollevamento pesi. Difficile per gli uomini, figurarsi per le donne. La signora Shamsol Ayat Alam, responsabile tecnica dell'allenamento delle squadre olimpiche femminili (per la prima volta nella storia del paese una judoka e una centometrista parteciparono ai giochi di Atene 2004) dice: "Abbiamo avuto grossi problemi per l'allenamento: avremmo voluto uno spazio tutto per noi, dove le ragazze potessero lavorare al riparo da sguardi indiscreti, ma a Kabul mancano le strutture e per l'affitto di una palestra il ministero dell'Educazione pretendeva dal Comitato olimpico...mille dollari, un'enormità. Così ci arrangiamo allo stadio, dove capita". Non e' un caso dunque se Mahboba e' adesso a Kuala Lumpur... Se la storia di Mahboba e' davvero il simbolo di una difficolta' strutturale e che risente inoltre del peso di una tradizione molto maschile, quella di Sayed e' invece l'emblema di una certa testardaggine e determinazione tutte afgane. Sayed, che ha solo 37 anni, nel 1997 stabilisce il primo Comitato sportivo afgano nelle "zone liberate" nel Nord del paese, a Pol-i-kumri. Son tempi duri. Nella seconda meta' degli anni Novanta, approfittando del caos che regna nella capitale dove, dopo la conquista e la disfatta dell'esercito nazionale pro sovietico, i mujaheddin si fanno la guerra, irrompe in Afghanistan il movimento dei talebani. Questi giovani pashtun, l'etnia maggioritaria del paese, educati a corano e kalashnikov in Pakistan, vengono in gran parte dai campi profughi nati in territorio pachistano durante la guerra, durata dieci anni sino al 1989, per cacciare l'occupante sovietico. Non sono semplicemente indottrinati e manipolati. Sentono forse anche di avere una missione moralizzatrice e vogliono riportare la pace in un paese dilaniato da un conflitto che, da lotta di liberazione, si e' trasformato in guerra civile tra gruppi di warlord. Ma il rigore del movimento dei "barbuti", mediato da un'interpretazione rigidissima, piu' che del Corano del pashtunwali, il codice tribale della tradizione pashtun, ha l'ossessione della pulizia. Niente musica, cinema, televisione, sesso e sport. Pulizia dagli orpelli satanici della modernita'. Compresi gli atleti. Sayed tiene duro. Fino al 2001 quando i talebani vengono sconfitti. Quella di oggi e' dunque una nuova pagina per lo sport afgano anche se il paese e' risprofondato nell'ennesimo buio della guerra. Un buio nel quale per ora filtrano pochi spiragli. Aziz Ahmad Akhtari, un ex pugile, l'uomo che 56 anni fa creò la boxe in Afghanistan, racconta la difficile strada di questa disciplina: "Oggi il pugilato nazionale è ai suoi minimi storici. Un tempo c'erano buoni allenatori, ma la guerra non ha permesso loro di coltivare campioni". È quel che ripetono tutti, non importa la specialità: la guerra ha messo lo sport in ginocchio. Poi i taliban, puntualizza Mohamed Saber Sherifi, anch'egli ex pugile, lo hanno umiliato: "Sotto il Mullah Omar, gli atleti dovevano portare la barba e i pantaloni lunghi. Ridicolo". Sherifi, che ha appena compiuto 50 anni, ha imparato a boxare a Lipsia, in Germania, e nel 1982 ha conquistato la medaglia d'argento ai campionati asiatici di Delhi. Oggi, per vivere, fa le pulizie in una base dell'esercito statunitense, ma il suo vero lavoro è allenare il team nazionale femminile di pugilato. "L'abbiamo creato dal nulla pochi mesi fa, selezionando le ragazze nelle scuole. Siamo stati costretti a farlo quando l'associazione internazionale di boxe amatoriale ha imposto la regola per cui possono partecipare ai campionati internazionali solo i paesi che abbiano anche una squadra femminile. Le ragazze sono eccezionali, hanno in corpo una rabbia superiore a quella dei loro coetanei maschi, imparano in fretta e fra due anni saranno delle pugilesse straordinarie. Anche se saranno obbligate a boxare col velo e i pantaloni lunghi." Così come, del resto, oggi sono costrette a farlo, in una stanzetta del Ghazi, indossando scarpe semisfondate e con un'attrezzatura di fortuna. "In futuro i pugili migliori verranno da Herat" dice Sherifi, "la vicinanza dell'Iran ha influenzato la popolazione: la gente è più aperta, capisce il valore dello sport, non lo considera un insulto all'islam. O, chissà, forse qualche campione arriverà da Kandahar", la patria del Mullah Omar. Ma se adesso Kabul guarda alle Olimpiadi di Pechino, l'Afghanistan e' anche il paese di sport autoctoni unici, molto particolari ed estremamente tradizionali. Sayed Mahmood Zia Dashti spiega ad esempio che ci sono almeno quattro tipi di lotta nazionale: il khosti chapanaki, che si gioca a corpo seminudo, il kairash che utilizza mazze, il khosti rostami che prevede la presa per la cintura e il khosti hazaraghi che consente solo quella per le spalle. Ma il gioco nazionale per eccellenza, disciplina non prevista alle Olimpiadi e praticata solo in Asia centrale, e' il buzkashi. E' un gioco che prevede squadre di cavalieri, i mitici chapandaz, che devono recuperare la carcassa di un vitello con la testa mozzata e le zampe tagliate all'altezza del garretto. L'animale deve essere portato all'esterno dell'arena (che guarda caso, quando si gioca il Gran buzkashi di Kabul, e' quella antistante lo stadio Ghazi) e la lotta e' senza esclusione di colpi: tutti sono ammessi. Calci, frustate, pugni pur di strappare all'avversario l'animale. Gioco violento e spettacolare che ha incantato viaggatori e scrittori e che e' una vera e propria passione popolare che né la guerra, né i colpi di stato, né i talebani hanno mai spento. Anche perché quella sfida tra i cavalieri, che da gioco di squadra si trasforma in una competizione tutti contro tutti, esprime il carattere del paese. E fornisce una chiave di lettura della sua secolare storia. Secondo l'antropologo americano Withney Azoy, autore di Buzkashi: gioco e potere in Afghanistan, il buzkashi è il simbolo di una violenta competizione per il potere politico che, a dispetto dei periodi di pace, è sempre pronta a esplodere. L'Afghanistan è una sorta di vulcano dice Azoy: spettacolare, bellissimo, affascinante e spesso politicamente "dormiente". Ma sotto l'apparente calma, in questo paese c'è sempre il potenziale di una violenta esplosione. Questa lettura permette di capire il potere dei signori della guerra, dei capi di tribù e clan, e anche le differenze tra popolazioni solo in parte omogenee. Una diversita' che si esprime dunque in un gioco in cui alla fine vale la regola del piu' forte e quella del "prestigio", non solo del cavaliere: il vero giocatore infatti non è il chapandaz ma il ricco proprietario del cavallo, il khan, che finanzia il gioco per il suo personale prestigio. Le ombre si allungano sullo stadio Ghazi e gli atleti mettono magliette e asciugamani nelle borse. Si avviano all'uscita, verso l'ampio spazio dove si gioca in primavera il buzkashi. Ma non ci sono chapandaz stasera. Solo un nugolo di bambini che giocano a cricket, sport di recente importazione pachistana. Hanno mazze caserecce e guanti e palle sgualcite. Ma si stanno davvero divertendo un mondo. (Emanuele la collaborazione di Sergio) |