Dopo la fuga da Cuba
le speranze di due pugili disposti al sacrificio pur di imporsi all'attenzione
del pubblico degli Stati Uniti. vi proponiamo questo articolo testimonianza sul
loro sogno.... americano.
Fuga da Cuba per il sogno del ring Usa
Debuttano in America Yan Barthelemy e Yurorkis Gamboa, due
dei tre pugili cubani vincitori dell'oro olimpico ad Atene 2004 che nel dicembre
scorso fuggirono dalla nazionale per arrivare al professionismo
di Paolo Gallori
Combattere
per la rivoluzione non appaga più i pugili cubani, fiore all'occhiello dello
sport di regime in tutte le edizioni dei Giochi Olimpici svoltesi dopo l'ascesa
al potere di Castro. Il loro sogno, oggi più che mai, è di togliere una volta
per tutte il caschetto protettivo e proiettarsi in una carriera da
professionisti negli Stati Uniti. Il nuovo credo è impersonato da Odlander
Fuentes Solis, Yan Barthelemy e Yurorkis Gamboa, vincitori delle medaglie d'oro
nelle categorie dei massimi, minimosca e mosca ai Giochi di Atene 2004.
Dileguatisi lo scorso dicembre in Venezuela, dove erano con la nazionale cubana,
i tre sono ricomparsi in marzo a Miami per raccontare come la loro fuga sia
stata una scelta obbligata per arrivare al professionismo.
Di
particolare impatto mediatico la storia di Solis, primo peso massimo nella
storia di Cuba a passare dall'oro olimpico al grande business della boxe Usa.
Immediato il confronto con la vicenda di Teofilo Stevenson, leggendario massimo
cubano degli anni 70/80, plurimedagliato ai Giochi Olimpici, all'epoca
inutilmente richiamato dalle sirene della boxe professionistica. Ma la storia,
da allora, ha preso tutto un altro corso, sono caduti muri e ideologie, le
utopie boccheggiano e i regimi non riescono più ad arginare il confronto con il
benessere altrui.
Dopo aver firmato un contratto con un promoter tedesco e aver
trascorso in Germania l'inverno, i tre pugili sono prossimi al tanto atteso
debutto negli Stati Uniti, dove sono curati dal manager di Miami Tony Gonzales.
Stanotte toccherà a Gamboa e Barthelemy, rispettivamente opposti al brasiliano
Adailton de Jesus e allo statunitense Kevin Hudgins. "Grazie a Dio ce
l'abbiamo fatta - raccontano i due -, siamo negli Usa. Tanti nostri
connazionali hanno atteso assieme a noi questo momento". Già, la comunità
degli esuli cubani anti-castristi ha da oggi una ragione in più per guardare con
ottimismo al futuro, nell'attesa che arrivi la spallata finale alle barcollanti
condizioni di salute di Fidel. Ma non sono questi i pensieri che attraversano la
mente di Gamboa e Barthelemy, due sportivi, non due politici. "Non è la
stessa cosa combattere in Europa o combattere in America - spiega il primo
-. Gli Usa sono la Mecca della boxe. Se non riesci a importi sui ring
americani, non resterà nessun segno del tuo passaggio in questo sport".
La
fuga da Cuba ha un costo esistenziale non da poco. Per mesi i pugili sono
rimasti isolati dalle loro famiglie. Nello scorso maggio Gamboa è stato
raggiunto dalla moglie e dalla figlioletta, la stessa fortuna non ha ancora
arriso Barthelemy, i cui parenti sono tutti a Cuba. "E' l'aspetto più duro
della faccenda - conferma Yan -, non avere la famiglia accanto. Cerco di
sentirli comunque vicini: telefono tutti i giorni con la mia fidanzata e con i
miei genitori". In compenso, rispetto alla fredda Germania, negli Stati
Uniti Gamboa e Barthelemy avranno dalla loro parte il tifo dei fuoriusciti
cubani, di cui avranno stasera il primo assaggio. Ma il loro pensiero è rivolto
alla gente che a Cuba continua a vivere e che anche da lì tiferà per loro. "Dalla
gente di Cuba ci aspettamo una spinta decisiva alle nostre carriere - dice
Barthelemy -. Probabilmente l'informazione ufficiale ignorerà le nostre
imprese, ma i cubani hanno imparato a informarsi da sè, con un'antenna fatta in
casa o anche col solo passaparola nelle strade".
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