ECCOVI UN ALTRO ARTICOLO MOLTO INTERESSANTE
INVIATOCI DAL DOTT. MASSIMO BLANCO, RESPONSABILE DIPARTIMENTO SOCIOLOGIA DELLA
WTKA, CHE CI RAGGUAGLIA CIRCA LA FISIOLOGICA FIGURA DEL LEADER ALL’INTERNO DI
OGNI GRUPPO. NON FANNO ECCEZIONE QUELLI DI ARTI MARZIALI E SPORT DA
COMBATTIMENTO.
La leadership nelle arti marziali
Di: Dott. Massomo Blanco
Direttore Dipartimento di Sociologia WTKA International
Il
termine “leader” deriva dall’inglese “to lead”, cioè “guidare”, essere
una persona rappresentativa e un soggetto di riferimento per un determinato
gruppo.
Chiaramente questo ha valore solo in ordine ad
una mera accezione tradizionale e semplicistica, in quanto la definizione di
leadership rientra in un concetto molto più ampio e profondo della vita sociale
dell’individuo e dell’intera collettività.
Quando pensiamo alla figura del leader, la nostra
mente la associa ai contesti dei partiti politici, delle aziende, delle
associazioni ecc…, insomma a tutte quelle istituzioni sociali che accolgono una
grande quantità di soggetti spinti da un obiettivo comune e che si fanno
“guidare”, anzi, sentono il bisogno di farsi guidare da un individuo con carisma
e forte personalità.
Invero, nella società odierna tutti possono
diventare dei veri leader, contrariamente alla credenza comune che le doti di
saper “guidare” un gruppo siano innate e riservate a pochi eletti.
Studi
recenti hanno posto in evidenza che il “vero” leader è colui che, con estrema
umiltà, non si sente mai arrivato ed ha sempre la costante necessità di
apprendere.
E quando si parla di appendere non ci si
riferisce solo allo studio teorico o all’acquisizione di abilità specifiche.
Apprendere significa innanzitutto avere un costante e proficuo confronto non
solo su determinate competenze del ruolo, ma avere la capacità di relazionarsi,
con spirito aperto, propositivo e senza imporre le proprie idee a tutti i costi,
con altri soggetti sia interni che esterni al gruppo.
Nelle arti marziali assistiamo spesso alla
mancanza di queste doti di leadership da parte di molti insegnanti che, una
volta assunto il ruolo di guida del proprio gruppo, “chiudono le porte” a tutto
ciò che sta intorno, vivendo nella convinzione di avere raggiunto la massima
realizzazione nella conoscenza e nella padronanza di un’arte marziale e
soffocando l’innata predisposizione umana che fa dell’uomo un essere che vive di
esperienze.
Un danno incalcolabile non solo per quei maestri
che si rintanano nelle loro convinzioni ma anche per il gruppo di allievi che si
vedono così negata la possibilità di ampliare le loro vedute e di entrare in
contatto con realtà diverse con le quali confrontarsi e fare a loro volta
esperienza.
Un esempio macroscopico di questa realtà è il
fatto che le arti marziali tradizionali, a parte qualche eccezione (judo e
taekwondo), non sono mai entrate a far parte delle competizioni olimpiche.
La
vera capacità del leader si concretizza, quindi, nel perseguire nuovi
comportamenti ed essere aperto ai cambiamenti, fattore che alimenta l’entusiasmo
del gruppo e la crescita di tutti i suoi componenti.
Come ci insegna la teoria del noto naturalista
Charles Darwin, “non è il più forte che sopravvive, né il più
intelligente, ma il più aperto al cambiamento”.
Il vero problema in moltissime palestre di arti
marziali risiede proprio nel fatto che molti maestri non sono inclini al
cambiamento, dando l’impressione di difendere e conservare meglio la purezza e
l’efficacia del loro metodo che considerano migliore rispetto a quello degli
altri.
In verità, tale atteggiamento nasconde un forte
sentimento di insicurezza da parte del maestro, il quale teme di essere
sconfessato nel suo metodo da parte dei propri allievi e di vedere così cadere
il ruolo di leader che, con molta fatica, si è conquistato nel tempo.
Da un punto di vista prettamente “umano” non si
può certo stigmatizzare un tale atteggiamento. In fin dei conti, chi non avrebbe
paura di perdere un ruolo così importante?
Così
accade che molti dojo (sono un maestro di karate e mi perdonino coloro che
praticano arti marziali non giapponesi e chiamano il luogo di studio e pratica
della loro disciplina in modo differente) abbiano al loro interno praticanti di
grande esperienza (terzo, quarto, addirittura quinto dan) che non hanno la
mentalità di poter finalmente “compiere il passo” per divenire a loro volta
leader, aprendo un proprio dojo.
Anche qui, il sentimento di insicurezza la fa da
padrone. Una insicurezza ingenerata dal maestro che, anche se in modo indiretto,
mette in dubbio le possibilità del praticante.
Diviene, nella sostanza, un padre che fa di tutto
per tenere a casa con se i propri figli.
Un atteggiamento che va contro natura ma che non
meraviglia quando parliamo di esseri umani che vivono inconsciamente la paura di
essere scalzati dal loro ruolo sociale.
Il maestro non deve avere paura di perdere la
propria leadership. Anzi, è suo compito “insegnare” ai suoi migliori allievi a
diventare a loro volta dei leader, nella consapevolezza che questi gli saranno
riconoscenti per sempre non solo per gli insegnamenti tecnici ma anche per aver
ricevuto, con amore e passione, l’incitamento a crescere, i consigli e i segreti
per essere dei veri “maestri” con spiccate doti di leadership.
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