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Un articolo che ci invita a fare una riflessione su come pensiamo di vedere la realtà del mondo intorno a noi, che ci viene proposto dalla nostra collaboratrice Roberta Cerruti, ad arricchire anche culturalmente queste pagine elettroniche

La repubblica di Platone: il mito della caverna

Di: Roberta Cerruti

Platone (filosofo vissuto a Atene tra il 428 e il 347) ha scritto “La Repubblica”, il suo trattato politico-filosofico, l’opera più importante di questo pensatore greco che in maniera inequivocabile ha influenzato tutto il pensiero filosofico occidentale successivo,  nell’arco di un trentennio (dal 390 al 360 a.C.). Il testo tratta essenzialmente di giustizia e nasce dall’esigenza forse di rivedere il modello politico della società in cui vive, mosso dalla profonda delusione per i fatti che accadono intorno a sé, primo fra tutti un evento che sconvolge la sua vita: l’ingiusto processo che si conclude con l’ingiusta condanna a morte del suo amico e maestro “un amico più anziano di me, un uomo che non esito a dire il più giusto del mio tempo»”, Socrate.

Nel trattato non si trovano solo concetti prettamente politici, bensì anche la descrizione di una città ideale  (che diventerà nota in seguito come la prima e forse più importante tra le utopie) e alcuni miti: è di uno di questi che vogliamo riproporvi alcuni stralci. Si tratta del Mito della caverna, contenuto all’inizio del VII libro de La Repubblica. I motivi per cui desideriamo condividerlo con i nostri lettori sono riconducibili alla sua estrema attualità (pare  che meno di quel che si pensi sia cambiato nei 2500 anni che ci separano dal momento in cui venne redatto); al fatto che questo mito spinge alla riflessione sulla natura umana, su ciò che sono i suoi condizionamenti (le catene di cui parla Platone) e le possibili conseguenze della sua liberazione; alla sua straordinaria somiglianza con i temi che vengono affrontati ogni giorno nella sezione culturale di questa rivista telematica… Spingersi oltre, vedere la realtà non come ci si presenta agli occhi, ma sentire con altri organi ciò che si cela dietro le apparenze, liberandosi così dei propri, talvolta pesanti, condizionamenti che creano conflittualità dentro noi stessi. Questa è forse la sorprendente attualità di questo brano, presentato sotto forma di dialogo, che qui di seguito potete, se lo desiderate, leggere… e interpretare ciascuno per come sente, ciascuno forse attribuendogli il proprio particolare significato.

 «Ora», seguitai, «paragona la nostra natura, per quanto concerne l'educazione e la mancanza di educazione, a un caso di questo genere. Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli».

«Li vedo», disse.

«Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri tacciono».

«Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!».

«Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei compagni qualcos'altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?»

«E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?» «E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?»

«Sicuro!».

«Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?»

«è inevitabile».

«E se nel carcere ci fosse anche un'eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all'ombra che passa?»

«Certo, per Zeus!».

«Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti».

«è del tutto inevitabile», disse.

«Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall'ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l'abbaglio fosse incapace di scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos'è? Non credi che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?»

«E di molto!», esclamò.

«E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli realmente più chiari di quelli che gli vengono mostrati?»

«è così », rispose.

«E se qualcuno», proseguii, «lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e non lo lasciasse prima di averlo condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a essere trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi accecati dal bagliore, non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri?»

«No, non potrebbe, almeno tutto a un tratto», rispose. «Se volesse vedere gli oggetti che stanno di sopra avrebbe bisogno di abituarvisi, credo. Innanzitutto discernerebbe con la massima facilità le ombre, poi le immagini degli uomini e degli altri oggetti riflesse nell'acqua, infine le cose reali; in seguito gli sarebbe più facile osservare di notte i corpi celesti e il cielo, alla luce delle stelle e della luna, che di giorno il sole e la luce solare».

«Come no? » «Per ultimo, credo, potrebbe contemplare il sole, non la sua immagine riflessa nell'acqua o in una superficie non propria, ma così com'è nella sua realtà e nella sua sede».

«Per forza», disse.

«In seguito potrebbe dedurre che è il sole a regolare le stagioni e gli anni e a governare tutto quanto è nel mondo visibile, e che in qualche modo esso è causa di tutto ciò che i prigionieri vedevano».

«E’ chiaro», disse, «che dopo quelle esperienze arriverà a queste conclusioni».

«E allora? Credi che lui, ricordandosi della sua prima dimora, della sapienza di laggiù e dei vecchi compagni di prigionia, non si riterrebbe fortunato per il mutamento di condizione e non avrebbe compassione di loro?» «Certamente».

«E se allora si scambiavano onori, elogi e premi, riservati a chi discernesse più acutamente gli oggetti che passavano e si ricordasse meglio quali di loro erano soliti venire per primi, quali per ultimi e quali assieme, e in base a ciò indovinasse con la più grande abilità quello che stava per arrivare, ti sembra che egli ne proverebbe desiderio e invidierebbe chi tra loro fosse onorato e potente, o si troverebbe nella condizione descritta da Omero e vorrebbe ardentemente "lavorare a salario per un altro, pur senza risorse" e patire qualsiasi sofferenza piuttosto che fissarsi in quelle congetture e vivere in quel modo?»

«Io penso», rispose, «che accetterebbe di patire ogni genere di sofferenze piuttosto che vivere in quel modo».

«E considera anche questo», aggiunsi: «se quell’uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all'improvviso dal sole?»

«Certamente», rispose.

«E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l'abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?».

«E come!», esclamò....

 «Una persona assennata», ripresi, «si ricorderebbe che i disturbi agli occhi sono di due tipi e duplice è la loro causa: il passaggio dalla luce all'oscurità e dall'oscurità alla luce. Considerando che la stessa cosa accade all'anima, qualora ne vedesse una turbata e incapace di vedere non riderebbe sconsideratamente, ma esaminerebbe se è ottenebrata dalla mancanza d'abitudine perché proviene da una vita più luminosa, o è rimasta abbagliata da una luce più splendida perché procede verso una vita più luminosa da una maggiore ignoranza, e allora stimerebbe felice l'una per ciò che prova e per la vita che conduce, e avrebbe compassione dell'altra; e quand'anche volesse ridere di questa, il suo riso riuscirebbe meno inopportuno che se fosse riservato all'anima proveniente dall'alto, alla luce».

«Hai proprio ragione!», esclamò.

«Se questo è vero», dissi, «dobbiamo concludere che l'educazione non è come la definiscono certuni che si professano filosofi. Essi sostengono di instillare la scienza nell'anima che non la possiede, quasi infondessero la vista in occhi che non vedono».

plato«In effetti sostengono questo», confermò.

«Ma il discorso attuale», insistetti, «rivela che questa facoltà insita nell'anima di ciascuno e l'organo che permette di apprendere devono essere distolti dal divenire assieme a tutta l'anima, così come l'occhio non può volgersi dalla tenebra alla luce se non assieme all'intero corpo, finché non risultino capaci di reggere alla contemplazione dell'essere e della sua parte più splendente; questo, secondo noi, è il bene. O no?»

«Sì ».

«Può quindi esistere», proseguii, «un'arte della conversione, che insegni il modo più facile ed efficace di girare quell'organo. Non si tratta di infondervi la vista, bensì , presupponendo che l'abbia, ma che non sia rivolto nella giusta direzione e non guardi là dove dovrebbe, di adoperarsi per orientarlo da questa parte».

«Pare di sì », disse.

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