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Muhammad Ali
Facing Ali

Noi, gli eroi maledetti che hanno sfidato il mito

Un libro raccoglie le testimonianze di quindici grandi campioni del pugilato che hanno incrociato i guantoni con Muhammad Ali. Ricordi, sfoghi e rimpianti

Di: Antonio Monda
Fonte: repubblica.it

Molti dei protagonisti del libro che vi sto per raccontare sono stati grandissimi campioni, e alcuni rappresentano tuttora un esempio di coraggio, abnegazione e lealtà sportiva. Ma non c'è uno di questi quindici pugili, anche tra i più grandi, che passerà alla storia se non per il fatto di aver incrociato i guantoni con Muhammad Ali. Perché il campione che vinse l'oro olimpico a Roma, salì sul trono dei massimi sconfiggendo l'orso cattivo Sonny Liston, rivoluzionò la boxe con tattiche funamboliche e imprevedibili, rifiutò di combattere in Vietnam, rinnegò il nome da schiavo Cassius Clay, divenne un musulmano nero, fu privato del titolo mondiale ma poi lo riconquistò due volte con match leggendari ed indimenticabili, è stato semplicemente il più grande. Un genio della boxe e anche il più bell'atleta che abbia mai calcato un ring, come lui stesso proclamava senza alcuna autoironia, confinando il suo rivale di turno, che si chiamasse Joe Frazier o George Foreman, al ruolo del non protagonista.

Facing AliUn appassionante libro pubblicato negli Stati Uniti con il titolo Facing Ali, a firma di Stephen Brunt, riunisce le testimonianze di quindici pugili che lo hanno sfidato lungo i vent'anni di una carriera costellata di trionfi e dolorose interruzioni, strutturando gli incontri come se fossero i quindici round di un unico ideale match con il mito. Pochi sport hanno la capacità di creare leggende come questa disciplina bestiale e scientifica, violenta e raffinata, per il semplice motivo che in ogni incontro sul ring si ripropone la quintessenza del duello, di ogni duello. Uno scontro che non contempla palloni da infilare in rete o bandierine da aggirare con gli sci, ma solo la forza delle mani e l'intelligenza tattica dei due contendenti; e che si conclude sempre con la gloria del vincitore che diventa re (il gergo pugilistico proclama: "È salito sul trono"), e l'umiliazione dello sconfitto.

Il genio di Ali si è manifestato nel modo in cui ha battuto avversari quasi sempre più potenti di lui, esaltando il rituale antichissimo della noble art. E le testimonianze dei quindici sfidanti raccolte nel libro ci ricordano come sul ring non possano esistere margini di riscatto: la gloria e l'umiliazione hanno a che fare direttamente, e ineluttabilmente, con la virilità dei contendenti. Soltanto uno rimane in piedi e alza le braccia al cielo, e soltanto lui è il campione.

Proprio George Foreman, il pugile che salì sul trono mortificando Joe Frazier e che poi massacrò Ken Norton prima di essere demolito da Ali, intuì l'essenza del fascino della noble art, e disse a Joyce Carol Oates, nel suo magnifico On Boxing: "La boxe è lo sport al quale tutti gli altri vorrebbero assomigliare". Ma l'aspetto più sorprendente di questo libro è che Ali risulta una figura mitica e distante, che finisce per esaltare l'umanità dei suoi rivali. Muhammad Ali è Davide che sconfigge Golia, o il Mozart di Peter Schaffer che ridicolizza l'umano, troppo umano Salieri. I quindici avversari minimizzano gli aspetti più controversi e meno nobili della sua personalità, sottolineando soprattutto l'indiscussa genialità sul ring. È una scelta comprensibile (più grande è il rivale, meno cocente è la sconfitta), che tuttavia ci priva di un ritratto realistico e a tutto tondo.

Pochi campioni dello sport hanno fatto quanto lui per difendere con orgoglio la propria razza, eppure Ali non esitò a usare appellativi razzisti nei confronti di Joe Frazier e di Sonny Liston. È un peccato che quest'ultimo, scomparso in maniera sospetta nel 1971 (la versione ufficiale fu overdose, ma c'è chi parla di un'esecuzione mafiosa), non offra la propria testimonianza, come non la offre Ernie Terrell, il gigante che fece l'errore di chiamarlo provocatoriamente Cassius Clay e venne massacrato per quindici riprese con colpi cattivi e mai definitivi, in modo da non provocare un ko liberatorio. Terrell terminò l'incontro con il volto deformato per la gragnuola di pugni che Ali gli sferrò durante l'incontro, ripetendo a ogni colpo: "Come mi chiamo?".

Manca nel libro anche Cleveland Williams, il rivale dell'incontro più bello che abbia mai disputato, ma quello che c'è è materiale per almeno una decina di film. Basti pensare alla vicenda di George Chuvalo, il roccioso canadese che non è mai stato atterrato in novantatré incontri e che per quindici riprese non arretrò mai di fronte ad Ali. Il suo coraggio sul ring è diventato metafora dello stoicismo con cui ha affrontato l'esistenza: Chuvalo ha visto due figli morire per droga, un terzo suicida, così come la moglie. Ha devoluto tutti i guadagni in beneficenza e ora assiste i tossicodipendenti. Non meno esemplare la vicenda del grandissimo Joe "Smoking" Frazier, che è stato il primo a batterlo ma poi è stato sconfitto sia nella rivincita che nella bella, e ancora non riesce a accettare di essere sempre considerato il secondo.

Il libro rivela che gli insulti di Ali, e in particolare quello di "ignorante" lo hanno ferito più delle sconfitte. Sembra un film invece la vicenda di Ron Lyle, figlio di un reverendo battista, che imparò la boxe in carcere dove era stato rinchiuso per aver ucciso, ancora adolescente, un coetaneo. Era un picchiatore formidabile, ma quando incontrò Ali si mise in testa di sfidarlo sul piano della tecnica e finì per ricevere una pesantissima lezione. Non c'è campione che non racconti la soggezione provata sul ring di fronte al mito. Il boato con cui veniva ritmato il nome Ali, la standing ovation, e poi quel sorriso da star del cinema sul corpo di un gigante. E il peso della sua storia, che andava ben oltre le corde del ring: Ali era l'uomo che aveva sfidato l'establishment, che aveva avuto il coraggio di dire no alla guerra in Vietnam spiegando che nessun Vietcong lo aveva "mai chiamato nigger". Che aveva cambiato le regole della boxe, trasformandola in uno spettacolo miliardario nel quale lui era l'unico protagonista, che "volava come una farfalla e pungeva come un'ape". Ed era anche un grandissimo showman: nei suoi duetti con il fido Drew "Bundini" Brown, era stato un precursore di quello che oggi conosciamo come rap. Ma era anche un grandissimo manipolatore, come imparò a sue spese George Foreman, il campione indistruttibile che venne demolito da Ali nel "Rumble in the jungle". L'incontro ha ispirato un bellissimo libro a Norman Mailer intitolato Il match, e un film non meno bello: Quando eravamo re. È l'apoteosi di Ali che, sfavorito in tutti i pronostici, non esitò a far passare Foreman per uno yankee asservito al potere e razzista a dispetto del colore della pelle. Riuscì a portare il pubblico tutto dalla sua parte, e durante l'incontro incitò la folla a gridare "Boma Ye" (uccidilo) prima di impartire al frastornato rivale una lezione di scienza pugilistica. Quando Foreman crollò al tappeto Mailer scrisse che sembrava "un maggiordomo di colore che apprende una terribile notizia". Il libro ci racconta che dopo quella sconfitta passò un lunghissimo periodo di depressione, ma oggi è tra coloro che ricordano Ali con maggiore affetto. Dice di essersi commosso quando lo ha visto accendere la torcia di Atlanta con la mano tremolante per il parkinson. E racconta che, quando si sente chiamare per nome da coloro che lo riconoscono, pensa che "è quasi come essere Ali".


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