Un libro raccoglie le
testimonianze di quindici grandi campioni del pugilato che hanno incrociato i
guantoni con Muhammad Ali. Ricordi, sfoghi e rimpianti
Molti dei protagonisti del libro che vi sto per raccontare
sono stati grandissimi campioni, e alcuni rappresentano tuttora un esempio di
coraggio, abnegazione e lealtà sportiva. Ma non c'è uno di questi quindici
pugili, anche tra i più grandi, che passerà alla storia se non per il fatto di
aver incrociato i guantoni con Muhammad Ali. Perché il campione che vinse l'oro
olimpico a Roma, salì sul trono dei massimi sconfiggendo l'orso cattivo Sonny
Liston, rivoluzionò la boxe con tattiche funamboliche e imprevedibili, rifiutò
di combattere in Vietnam, rinnegò il nome da schiavo Cassius Clay, divenne un
musulmano nero, fu privato del titolo mondiale ma poi lo riconquistò due volte
con match leggendari ed indimenticabili, è stato semplicemente il più grande. Un
genio della boxe e anche il più bell'atleta che abbia mai calcato un ring, come
lui stesso proclamava senza alcuna autoironia, confinando il suo rivale di
turno, che si chiamasse Joe Frazier o George Foreman, al ruolo del non
protagonista.
Un appassionante libro pubblicato negli Stati Uniti con il
titolo Facing Ali, a firma di Stephen Brunt, riunisce le
testimonianze di quindici pugili che lo hanno sfidato lungo i vent'anni di una
carriera costellata di trionfi e dolorose interruzioni, strutturando gli
incontri come se fossero i quindici round di un unico ideale match con il mito.
Pochi sport hanno la capacità di creare leggende come questa disciplina bestiale
e scientifica, violenta e raffinata, per il semplice motivo che in ogni incontro
sul ring si ripropone la quintessenza del duello, di ogni duello. Uno scontro
che non contempla palloni da infilare in rete o bandierine da aggirare con gli
sci, ma solo la forza delle mani e l'intelligenza tattica dei due contendenti; e
che si conclude sempre con la gloria del vincitore che diventa re (il gergo
pugilistico proclama: "È salito sul trono"), e l'umiliazione dello
sconfitto.
Il genio di Ali si è manifestato nel modo in cui ha battuto
avversari quasi sempre più potenti di lui, esaltando il rituale antichissimo
della noble art. E le testimonianze dei quindici sfidanti raccolte nel libro ci
ricordano come sul ring non possano esistere margini di riscatto: la gloria e
l'umiliazione hanno a che fare direttamente, e ineluttabilmente, con la virilità
dei contendenti. Soltanto uno rimane in piedi e alza le braccia al cielo, e
soltanto lui è il campione.
Proprio George Foreman, il pugile che salì sul trono
mortificando Joe Frazier e che poi massacrò Ken Norton prima di essere demolito
da Ali, intuì l'essenza del fascino della noble art, e disse a Joyce Carol Oates,
nel suo magnifico On Boxing: "La boxe è lo sport al quale tutti gli altri
vorrebbero assomigliare". Ma l'aspetto più sorprendente di questo libro è
che Ali risulta una figura mitica e distante, che finisce per esaltare l'umanità
dei suoi rivali. Muhammad Ali è Davide che sconfigge Golia, o il Mozart di Peter
Schaffer che ridicolizza l'umano, troppo umano Salieri. I quindici avversari
minimizzano gli aspetti più controversi e meno nobili della sua personalità,
sottolineando soprattutto l'indiscussa genialità sul ring. È una scelta
comprensibile (più grande è il rivale, meno cocente è la sconfitta), che
tuttavia ci priva di un ritratto realistico e a tutto tondo.
Pochi campioni
dello sport hanno fatto quanto lui per difendere con orgoglio la propria razza,
eppure Ali non esitò a usare appellativi razzisti nei confronti di Joe Frazier e
di Sonny Liston. È un peccato che quest'ultimo, scomparso in maniera sospetta
nel 1971 (la versione ufficiale fu overdose, ma c'è chi parla di un'esecuzione
mafiosa), non offra la propria testimonianza, come non la offre Ernie Terrell,
il gigante che fece l'errore di chiamarlo provocatoriamente Cassius Clay e venne
massacrato per quindici riprese con colpi cattivi e mai definitivi, in modo da
non provocare un ko liberatorio. Terrell terminò l'incontro con il volto
deformato per la gragnuola di pugni che Ali gli sferrò durante l'incontro,
ripetendo a ogni colpo: "Come mi chiamo?".
Manca nel libro anche Cleveland
Williams, il rivale dell'incontro più bello che abbia mai disputato, ma quello
che c'è è materiale per almeno una decina di film. Basti pensare alla vicenda di
George Chuvalo, il roccioso canadese che non è mai stato atterrato in novantatré
incontri e che per quindici riprese non arretrò mai di fronte ad Ali. Il suo
coraggio sul ring è diventato metafora dello stoicismo con cui ha affrontato
l'esistenza: Chuvalo ha visto due figli morire per droga, un terzo suicida, così
come la moglie. Ha devoluto tutti i guadagni in beneficenza e ora assiste i
tossicodipendenti. Non meno esemplare la vicenda del grandissimo Joe "Smoking"
Frazier, che è stato il primo a batterlo ma poi è stato sconfitto sia nella
rivincita che nella bella, e ancora non riesce a accettare di essere sempre
considerato il secondo.
Il libro rivela che gli insulti di Ali, e in particolare
quello di "ignorante" lo hanno ferito più delle sconfitte. Sembra un film invece
la vicenda di Ron Lyle, figlio di un reverendo battista, che imparò la boxe in
carcere dove era stato rinchiuso per aver ucciso, ancora adolescente, un
coetaneo. Era un picchiatore formidabile, ma quando incontrò Ali si mise in
testa di sfidarlo sul piano della tecnica e finì per ricevere una pesantissima
lezione.
Non c'è campione che non racconti la soggezione provata sul ring di
fronte al mito. Il boato con cui veniva ritmato il nome Ali, la standing
ovation, e poi quel sorriso da star del cinema sul corpo di un gigante. E il
peso della sua storia, che andava ben oltre le corde del ring: Ali era l'uomo
che aveva sfidato l'establishment, che aveva avuto il coraggio di dire no alla
guerra in Vietnam spiegando che nessun Vietcong lo aveva "mai chiamato nigger".
Che aveva cambiato le regole della boxe, trasformandola in uno spettacolo
miliardario nel quale lui era l'unico protagonista, che "volava come una
farfalla e pungeva come un'ape". Ed era anche un grandissimo showman: nei suoi
duetti con il fido Drew "Bundini" Brown, era stato un precursore di quello che
oggi conosciamo come rap. Ma era anche un grandissimo manipolatore, come imparò
a sue spese George Foreman, il campione indistruttibile che venne demolito da
Ali nel "Rumble in the jungle". L'incontro ha ispirato un bellissimo libro a
Norman Mailer intitolato Il match, e un film non meno bello: Quando eravamo re.
È l'apoteosi di Ali che, sfavorito in tutti i pronostici, non esitò a far
passare Foreman per uno yankee asservito al potere e razzista a dispetto del
colore della pelle. Riuscì a portare il pubblico tutto dalla sua parte, e
durante l'incontro incitò la folla a gridare "Boma Ye" (uccidilo) prima di
impartire al frastornato rivale una lezione di scienza pugilistica. Quando
Foreman crollò al tappeto Mailer scrisse che sembrava "un maggiordomo di colore
che apprende una terribile notizia". Il libro ci racconta che dopo quella
sconfitta passò un lunghissimo periodo di depressione, ma oggi è tra coloro che
ricordano Ali con maggiore affetto. Dice di essersi commosso quando lo ha visto
accendere la torcia di Atlanta con la mano tremolante per il parkinson. E
racconta che, quando si sente chiamare per nome da coloro che lo riconoscono,
pensa che "è quasi come essere Ali".