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Torna a scrivere per noi un bellissimo articolo un nostro
ottimo collaboratore che da tempo non sentivamo più: Alessandro Fiumetti. Ci
invia l’intervista fatta ad una ragazza che non potremmo definire… che come
un magnifico “esemplare” di guerriero a “tutto tondo”, con lusinghieri
successi sia nello sport che negli studi e quindi nella Vita. Pubblichiamo, non
senza una punta di invidia, ma, naturalmente, con sincera ammirazione.
LA RAGAZZA DAL KIMONO D’ORO(ovvero di Bologna
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R.: Sai, un discorso è vivere lo sport da
atleta, ed un altro è viverlo da Maestro o Allenatore. Per esempio, dal mio
punto di vista il vero Maestro è colui che sa mettersi in disparte, dietro le
quinte, per far crescere l’allievo. E, nonostante io ami molto insegnare, al
momento mi sento ancora troppo protagonista della mia vita per mettermi in
disparte: così l’arte diventa per me un ottimo strumento per continuare ad
essere sempre me stessa, al centro della mia esistenza.
R.: Beh, le Olimpiadi sono forse il più forte
impulso allo sviluppo per lo sport che esista al mondo. Tutti i Paesi
partecipanti dedicano all’evento la massima attenzione, in termini di sforzi,
mezzi ed investimenti, vista la sua risonanza planetaria. E la competizione fa
il resto: permette agli atleti di incontrarsi sotto gli occhi di tutto il mondo,
facendoli crescere tecnicamente ed umanamente grazie al confronto.
In questo modo tutti i sistemi si muovono, si trasformano. Guarda il judo, per
esempio. La disciplina maschile è stata introdotta alle Olimpiadi nel 1964, ma
il suo fondatore Jigoro Kano, in quanto rappresentante del Comitato Olimpico
Internazionale, aveva già provato ad inserirlo per i Giochi di Berlino del
1936.
Creando il judo, egli aveva già dato una spinta in avanti al ju jitsu, l’antica
forma di combattimento a mani nude dei samurai, trasformandolo in una disciplina
sportiva ed educativa, aprendosi fortemente all’Occidente e sentendo l’esigenza
di andare oltre, guardare lontano. Questo è forse il motivo trainante delle
Olimpiadi: il dinamismo, la spinta, lo sviluppo delle discipline e delle
nazioni.
Il bozzetto dell'opera omaggio a Pantani |
R.: Il Doping è il cancro dello Sport. Doparsi
è profondamente stupido, vuol dire barare prima di tutto con se stessi, e ti
toglie la possibilità di essere un vero Atleta. In più in certi sport come il
mio dove è predominante la tattica non serve. Se sei dotato, ti alleni bene e
ti senti fortemente motivato i farmaci non ti servono anzi, tolgono fiducia
nelle proprie possibilità.
R.: Sì, in assoluto: pur non avendo mai vinto la
medaglia d’oro alle Olimpiadi, secondo le Classifiche Internazionali il mio
palmares si compone di 1 argento e 1 bronzo olimpici, più 2 ori e 1 bronzo
mondiali. Una dote incredibile, pensando anche al fatto che fisicamente non
assomiglio molto allo standard giapponese…
R.: Quasi mai, purtroppo. Molti anzi mi hanno criticato dal punto di vista
tecnico perché non ho mai potuto praticare un judo tipicamente “giapponese”,
fatto di posizioni basse, cosa impossibile vista la mia conformazione fisica
(altezza superiore alla media, fisionomia longilinea), e soprattutto
sottovalutando la mia sensibilità tattile e la mia predisposizione mentale a
non mollare mai.. E’ per questo motivo che, come insegnante, ritengo più
giusto lasciare libero l’atleta di esprimere la propria creatività, adattando
gli strumenti tecnici al suo schema motorio, e non viceversa.
Questa è la via da seguire se vuoi un valido atleta.
R.: Perché ho preferito assicurarmi il futuro
studiando, e quindi mi sono diplomata presso l’ISEF e successivamente preso
R.: No, non è uno scherzo, te lo assicuro!
Mangi, ti alleni, dormi. E il giorno appresso ricominci: mangi, ti alleni e
dormi. In realtà, io ho sempre interrotto la pratica del judo dopo ogni
Olimpiade, per un breve periodo s’intende. Era l’unico modo per scrollarmi
di dosso tutte le tensioni accumulate e per ricaricare le batterie.
Inoltre, a partire dai 24 – 25 anni ho imparato a gestirmi come atleta, cosa
indispensabile se si vuole durare a lungo e raggiungere dei risultati.
Ecco perché ritengo sbagliato che si consideri un’atleta “vecchio” a
partire dai 24 anni in avanti, perché è proprio quello il momento in cui,
salvo casi eccezionali, si mette a frutto l’esperienza acquisita, si matura
tecnicamente ed agonisticamente, e si impara a gestirsi.
R.: L’atleta è l’anello debole della catena
sportiva agonistica. Viene sempre “schiacciato” dagli allenatori e dal
sistema, che tendono a spremerlo oltre misura. E’ il militare di prima linea,
il soldato di trincea che, se non ha alle spalle una cultura sufficiente, o una
famiglia, oppure degli affetti che lo sostengono, rischia davvero di scoppiare.
R.: Cercando dentro me stessa l’equilibrio e le
motivazioni giuste per andare avanti. Inoltre sono stata fortunata, nonostante
mi sia imbattuta in soggetti di varia qualità, ad incontrare anche persone
giuste che mi hanno accompagnata nel mio viaggio.
E poi ho sempre potuto contare sull’appoggio della mia famiglia.
Insomma, mettendo tutto insieme, un’atleta può raggiungere grandi traguardi
anche senza barare, perché lo sport insegna, questo è il suo fine educativo.
Se si disconosce questo, allora non resta più nulla…
R.: Noo, assolutamente, ero troppo talentuosa.
Considera che con due allenamenti alla settimana, in terza media, ho vinto i
Campionati Italiani...
No, ho sempre cercato di sentirmi libera nella pratica dello sport, libera di
esprimermi e di guardarmi dentro. Poi, la mia sensibiltà tattile ha fatto il
resto.
R.: In gara io riuscivo ad avvertire lo stato d’animo
della mia avversaria semplicemente afferrando il suo judogi (la casacca
indossata dagli atleti durante le competizioni): paura, nervosismo, sicurezza di
sé, sentivo queste sensazioni e ne traevo vantaggio. E’ per questo motivo che
mi esprimo così bene nella scultura, perché è una forma di arte fisica. Si
tratta, secondo me, di una forma di empatia, che anche ogni buon insegnante
dovrebbe avere.
Olimpiadi
di Barcellona, 1992 |
R.: Bene, faccio di tutto per ribaltare l’assioma
“Grande atleta, cattivo maestro”, e mi piace farlo. Nei miei studenti
ricerco soprattutto la curiosità e la voglia di non sedersi mai. Spesso non è
facile, lo comprendo. Il judo è una disciplina che mette a nudo la personalità
e dietro la quale non ci si può nascondere. Oggigiorno, per un giovane, ci sono
moltissimi motivi di distrazione, tanto è vero che mi sento di ringraziare
sinceramente tutti coloro che iniziano a praticare questo sport (che è anche
Arte) con me, o da qualsiasi altra parte, perché potrebbe benissimo fare altre
cose!
Come, poi, succede spesso: i ragazzi, dopo un certo periodo di pratica, scelgono
davvero di fare altre cose, di prendere altre strade. Molti di loro hanno
semplicemente bisogno di una guida, e spesso sembra che ti rispettino solo se
lì schiacci…
R.: Di solito è chi ha paura del confronto che
mette distanza tra sé ed il proprio interlocutore, e si fa chiamare “Maestro”:
chi non teme il confronto, invece, spesso lo ricerca. In ogni caso, io
preferisco il dialogo, perché solo così avviene lo scambio di conoscenze. A
Scienze Motorie, per esempio, io tengo un corso di judo che, dal punto di vista
accademico, è un insegnamento complementare: pertanto, nessuno obbliga i miei
ragazzi a frequentarlo.
R.: Bene, perché c’è molta curiosità,
specialmente intorno al sincero, diretto confronto uno – contro – uno del
judo.
R.: Un’artista, senza dubbio. Come ti ho già
detto, mi sentivo tale anche quando gareggiavo. Pensa che, tanto per fare un
esempio, durante le operazioni del peso prima di andare in gara, io osservavo la
fisionomia delle mie avversarie e da queste traevo già le mie conclusioni sul
loro judo. Quando andavo alle riunioni, io disegnavo bozzetti dei visi dei
presenti. Non sentivo un gran bisogno di visionare preventivamente filmati delle
loro gare per studiarne i punti deboli.
Grazie alla mia sensibilità tattile ho sconfitto atlete fisicamente più forti
di me.
Io amo l’arte perché apre la mente, crea nuovi spazi, ed è per tutti: e,
soprattutto, deve essere mostrata a tutti. Senza bisogno di urlare, o, peggio,
di violentare. Chi lo fa, e ti assicuro che sono in tanti, usa l’arte per
sfogare il proprio malessere, come uno psicodramma.. invece d’andare in cura.
R.: Sì, ed è un messaggio che oggi come oggi è sulla bocca di tutti, ma non è minimamente sentito: il valore educativo dello sport. Specialmente quando si perdono le gare.
R.: Quando vieni schienato, vieni schienato,
punto e basta. E’ successo. A me, a te, a tanti altri. E’ come ti rialzi e
come ti guardi indietro che fa la differenza.
In questo senso, è importantissimo essere circondati dalle persone giuste, che
non ti viziano e che cercano di farti vedere le cose in modo obiettivo.
Il grande Marco Pantani era un formidabile atleta, che aveva vinto tanto, ma che
è stato schiacciato da un sistema che non gli ha dato respiro.
R.: No, affatto. Tieni conto che ho due fratelli
maschi…piuttosto, il mio problema era che non amavo talvolta allenarmi con le
ragazze perché le trovavo un po’ “molli”, e, d’altro canto, allenandomi
troppo con i maschi, finivo per concentrarmi eccessivamente sul lato potenza e
perdevo l’abitudine al judo “avvolgente” e sensibile delle donne.
Oggigiorno è piuttosto comune trovare judoka di sesso opposto che si allenano
insieme, c’è molta parità.
R.: Sì, e va esaltata, perché è un valore aggiunto. Come insegnante io sottolineo sempre il vero significato del concetto judo, che tradotto in italiano vuol dire “via della cedevolezza”: la potenza è facilmente allenabile, ma non basta. Il judo è sensibilità: l’avversario forte e potente viene sempre battuto dalla sensibilità, ossia dalla capacità di cogliere il momento di disequilibrio dell’opponente.
R.: Quando ci si allena è fondamentale
sviluppare la sensibilità, mediante la pratica con il partner: a questa va
unita una robusta preparazione atletica ed un corretto (e sottolineo corretto)
programma di allenamento con i pesi, che permetta di sviluppare la forza
esplosiva. Quando si è in gara, invece, bisogna concentrarsi unicamente sulla
sensibilità: cogliere l’attimo in cui il nostro avversario può essere
sbilanciato e….farlo volare!
R.: Assolutamente sì: e, con una buona scuola, anche per tutte le età.
R.: A Bologna ci sono tante opportunità di
pratica, da questo punto di vista è una splendida città. Tuttavia, accade
spesso che ogni comunità sportiva tenda a guardare ognuna esclusivamente nel
proprio orto, facendo venire meno una buona comunicazione che sarebbe (Olimpiadi
di Atlanta, 1996) molto utile a tutti coloro che vorrebbero essere iniziati alla
pratica di uno sport. Questo perché a Bologna c’è benessere. In ogni caso,
resta sempre la mia città, dove spero di poter tornare al più presto ed aprire
uno spazio judoistico tutto mio.
Foto ed informazioni per gentile concessione del sito www.emanuelapierantozzi.com