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Judo

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Torna a scrivere per noi un bellissimo articolo un nostro ottimo collaboratore che da tempo non sentivamo più: Alessandro Fiumetti. Ci invia l’intervista fatta ad una ragazza che non potremmo definire… che come un magnifico “esemplare” di guerriero a “tutto tondo”, con lusinghieri successi sia nello sport che negli studi e quindi nella Vita. Pubblichiamo, non senza una punta di invidia, ma, naturalmente, con sincera ammirazione.

LA RAGAZZA DAL KIMONO D’ORO

(ovvero di Bologna la Dotta , la Turrìta , e la Judoka )

Di: Alessandro Fiumetti (da Capitasport)

  

Bologna è una città ricca di spunti interessanti. Le sue bellezze artistiche, il suo patrimonio culturale, la sua naturale apertura cosmopolita fanno della nostra città un luogo ideale di soggiorno e di vita. Inoltre, si mangia pure bene. Ma è anche una città timida, che non ama mettersi in mostra, e che di certo non veste l’abito di chi vuole a tutti i costi farsi notare. Tant’è che ti può capitare di andare alla stessa scuola superiore ed essere concittadino di chi, per la prima parte della sua vita, è stata semplicemente la più grande campionessa di judo che l’Italia abbia mai avuto, e non lo sai. Questo perché a Bologna, come nella gran parte del Bel Paese, il calcio e il basket la fanno da padroni, spesso senza grandi meriti. Bene, da tempo noi di Capitasport abbiamo deciso di invertire questa tendenza, e, se avrete la pazienza di seguirci, oggi vi dimostreremo che ne è valsa la pena. Il judo, dicevamo. Trattasi di arte marziale giapponese codificata all’inizio del secolo scorso, e caratterizzata da tecniche di corpo a corpo, leve e proiezioni. E’ un ottimo strumento educativo, specialmente per i bambini e gli adolescenti, perché insegna il rispetto per l’avversario e stimola la crescita personale mediante una pratica che si svolge insieme agli altri: inoltre è un’ottima attività sportiva anche per gli adulti, conferisce benessere, permette di raggiungere un’eccellente forma fisica, e da molti è considerata la migliore forma di autodifesa per uomini e donne. Infine, il judo è sport olimpico dal 1964.

La nostra protagonista di oggi, bolognese doc, ha vinto moltissimo sui tatami di tutto il mondo e vanta un medagliere da capogiro:

  • 1 argento e 1 bronzo olimpico,

  • 2 ori mondiali,

  • 2 volte prima classificata ai Campionati del Mondo Universitari,

  • 2 medaglie d’oro agli Europei

  • oltre 15 tornei internazionali vinti,

  • più svariati piazzamenti di prestigio (argento e bronzo) dal 1988 al 2000, anno in cui si è ritirata dalle competizioni.

  • Diplomata ISEF e Laureata in Scienze Motorie,

  • autrice di pubblicazioni dedicate al valore educativo dello sport,

  • insegna presso la Facoltà di Scienza Motorie dell’Università di Bologna,

  • ha collaborato anche con l’ateneo di Genova dal 2000 al 2004,

  • è ovviamente Docente di judo (di cui riveste il grado il cintura nera VI° dan).

  • Dal 1997 è Ambasciatrice dello Sport 

  • nel 2000 è stata investita del titolo di Cavaliere delle Repubblica.

  • E’ una grande appassionata di arte e frequenta il 2° anno dell’Accademia di Belle Arti di Bologna.

  • Nel 2004, infine, ha vinto il concorso per la realizzazione del monumento scultoreo dedicato all’indimenticato campione di ciclismo Marco Pantani.

Il personaggio in questione si chiama: Emanuela Pierantozzi

Con grande disponibilità ha accettato di incontrarci, e noi siamo orgogliosi di mostrarvi il resoconto di una splendida chiacchierata.

D.: Mi ricordo di aver letto qualcosa di te sui quotidiani sportivi bolognesi parecchi anni fa...

R.: Non ti sbagli. Io pratico il judo dalla tenera età di 8 anni e dal 1986 al 1992 sono stata tesserata quale atleta agonista della Società Sportiva bolognese “Sempre Avanti”. Inoltre ho svolto attività di direzione tecnica anche per il Centro Sportivo Universitario Bolognese. Adesso invece ho posto il mio campo base presso la Società Sportiva “Izumo Vultur” di Genova.

D.: Come mai questa partenza da Bologna?

R.: Semplicemente perché le aspettative e la pressione che si erano concentrate sulla mia figura di atleta erano diventate inadeguate per un ambiente quale quello del judo. Nel 1992, dopo le Olimpiadi di Barcellona (dove il judo femminile è divenuto disciplina ufficiale a tutti gli effetti), e soprattutto dopo 2 titoli mondiali vinti, mi sono trovata con una grandissima pressione addosso, senza alcun tipo di filtro da parte di chi mi circondava. Così ho preferito rimanere nel mondo del judo cambiando ambiente. Ho scelto di andare a Genova alla scuola di judo educativo della Dottoressa Muroni, che trovo più idonea alle mie aspettative attuali, e dove nel 1994 ho completato gli studi ISEF e dove successivamente, dal 1995 al 2000, sono diventata assistente della Dottoressa che insegnava presso lo stesso ISEF. Attualmente mi divido tra Genova e Bologna, che resta comunque la mia città, e dove frequento il 2° anno della Accademia di Belle Arti. Amo moltissimo l’arte, da sempre, e al momento mi dedico alla scultura: di recente ho vinto il concorso per la realizzazione del monumento all’indimenticato Marco Pantani.


Olimpiadi di Sidney, 2000

D.: E’ bello poter fare tante esperienze diverse, per te è quasi una seconda vita, dopo tanti anni di judo…

R.: Sai, un discorso è vivere lo sport da atleta, ed un altro è viverlo da Maestro o Allenatore. Per esempio, dal mio punto di vista il vero Maestro è colui che sa mettersi in disparte, dietro le quinte, per far crescere l’allievo. E, nonostante io ami molto insegnare, al momento mi sento ancora troppo protagonista della mia vita per mettermi in disparte: così l’arte diventa per me un ottimo strumento per continuare ad essere sempre me stessa, al centro della mia esistenza.

D.: Tu hai frequentato le Olimpiadi, praticamente eri di casa: per noi che le vediamo solo in tv, raccontaci qualcosa…

R.: Beh, le Olimpiadi sono forse il più forte impulso allo sviluppo per lo sport che esista al mondo. Tutti i Paesi partecipanti dedicano all’evento la massima attenzione, in termini di sforzi, mezzi ed investimenti, vista la sua risonanza planetaria. E la competizione fa il resto: permette agli atleti di incontrarsi sotto gli occhi di tutto il mondo, facendoli crescere tecnicamente ed umanamente grazie al confronto.
In questo modo tutti i sistemi si muovono, si trasformano. Guarda il judo, per esempio. La disciplina maschile è stata introdotta alle Olimpiadi nel 1964, ma il suo fondatore Jigoro Kano, in quanto rappresentante del Comitato Olimpico Internazionale, aveva già provato ad inserirlo per i Giochi di Berlino del 1936.
Creando il judo, egli aveva già dato una spinta in avanti al ju jitsu, l’antica forma di combattimento a mani nude dei samurai, trasformandolo in una disciplina sportiva ed educativa, aprendosi fortemente all’Occidente e sentendo l’esigenza di andare oltre, guardare lontano. Questo è forse il motivo trainante delle Olimpiadi: il dinamismo, la spinta, lo sviluppo delle discipline e delle nazioni.

Il bozzetto dell'opera omaggio a Pantani

D.: E il doping?

R.: Il Doping è il cancro dello Sport. Doparsi è profondamente stupido, vuol dire barare prima di tutto con se stessi, e ti toglie la possibilità di essere un vero Atleta. In più in certi sport come il mio dove è predominante la tattica non serve. Se sei dotato, ti alleni bene e ti senti fortemente motivato i farmaci non ti servono anzi, tolgono fiducia nelle proprie possibilità.

D.: Tu sei l’atleta più titolata della storia del judo italiano?

R.: Sì, in assoluto: pur non avendo mai vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi, secondo le Classifiche Internazionali il mio palmares si compone di 1 argento e 1 bronzo olimpici, più 2 ori e 1 bronzo mondiali. Una dote incredibile, pensando anche al fatto che fisicamente non assomiglio molto allo standard giapponese…

D.: Quindi, durante la tua carriera, avrai sempre incontrato Maestri ed Allenatori che ti hanno compresa esaltando la tua “diversità” fisica...

R.: Quasi mai, purtroppo. Molti anzi mi hanno criticato dal punto di vista tecnico perché non ho mai potuto praticare un judo tipicamente “giapponese”, fatto di posizioni basse, cosa impossibile vista la mia conformazione fisica (altezza superiore alla media, fisionomia longilinea), e soprattutto sottovalutando la mia sensibilità tattile e la mia predisposizione mentale a non mollare mai.. E’ per questo motivo che, come insegnante, ritengo più giusto lasciare libero l’atleta di esprimere la propria creatività, adattando gli strumenti tecnici al suo schema motorio, e non viceversa.
Questa è la via da seguire se vuoi un valido atleta.

D.: Perché, come agonista di livello internazionale, una volta terminati gli studi superiori non sei entrata nei Gruppi Sportivi delle Forze Armate o della Polizia di Stato?

R.: Perché ho preferito assicurarmi il futuro studiando, e quindi mi sono diplomata presso l’ISEF e successivamente preso la Laurea in Scienze Motorie. Inoltre ho notato un fortissimo calo di motivazione agonistica in chi si arruola, spesso accade che… ci si siede. Io ho preferito mantenere viva una certa, grande, tensione motivazionale. La mia ricerca nel campo dell’arte è, in questo senso, molto simile al mio stile di vita: una lunga, costante esplorazione dentro me stessa, che non si vede, ma che si sente dentro e fuori.

 

D.: Come sei riuscita a mantenere sempre vivo, durante tutta la tua carriera di atleta, l’entusiasmo in ciò che facevi? Le Olimpiadi, ad esempio, sono una cosa meravigliosa, ma la preparazione ad esse non è certo uno scherzo...

R.: No, non è uno scherzo, te lo assicuro! Mangi, ti alleni, dormi. E il giorno appresso ricominci: mangi, ti alleni e dormi. In realtà, io ho sempre interrotto la pratica del judo dopo ogni Olimpiade, per un breve periodo s’intende. Era l’unico modo per scrollarmi di dosso tutte le tensioni accumulate e per ricaricare le batterie.
Inoltre, a partire dai 24 – 25 anni ho imparato a gestirmi come atleta, cosa indispensabile se si vuole durare a lungo e raggiungere dei risultati.
Ecco perché ritengo sbagliato che si consideri un’atleta “vecchio” a partire dai 24 anni in avanti, perché è proprio quello il momento in cui, salvo casi eccezionali, si mette a frutto l’esperienza acquisita, si matura tecnicamente ed agonisticamente, e si impara a gestirsi.

D.: Sì ma, all’interno del mondo sportivo competitivo, l’atleta ha un qualche peso, o è solo un soggetto animato?

R.: L’atleta è l’anello debole della catena sportiva agonistica. Viene sempre “schiacciato” dagli allenatori e dal sistema, che tendono a spremerlo oltre misura. E’ il militare di prima linea, il soldato di trincea che, se non ha alle spalle una cultura sufficiente, o una famiglia, oppure degli affetti che lo sostengono, rischia davvero di scoppiare.

   

D.: E tu come hai fatto a non scoppiare?

R.: Cercando dentro me stessa l’equilibrio e le motivazioni giuste per andare avanti. Inoltre sono stata fortunata, nonostante mi sia imbattuta in soggetti di varia qualità, ad incontrare anche persone giuste che mi hanno accompagnata nel mio viaggio.
E poi ho sempre potuto contare sull’appoggio della mia famiglia.
Insomma, mettendo tutto insieme, un’atleta può raggiungere grandi traguardi anche senza barare, perché lo sport insegna, questo è il suo fine educativo.
Se si disconosce questo, allora non resta più nulla…

D.: Nessuno ti ha mai detto, da piccola, guardando la tua conformazione fisica così poco orientale, “Ma dai, lascia perdere il judo e gioca a basket...”?

R.: Noo, assolutamente, ero troppo talentuosa. Considera che con due allenamenti alla settimana, in terza media, ho vinto i Campionati Italiani...
No, ho sempre cercato di sentirmi libera nella pratica dello sport, libera di esprimermi e di guardarmi dentro. Poi, la mia sensibiltà tattile ha fatto il resto.

D.: Sensibilità tattile?

R.: In gara io riuscivo ad avvertire lo stato d’animo della mia avversaria semplicemente afferrando il suo judogi (la casacca indossata dagli atleti durante le competizioni): paura, nervosismo, sicurezza di sé, sentivo queste sensazioni e ne traevo vantaggio. E’ per questo motivo che mi esprimo così bene nella scultura, perché è una forma di arte fisica. Si tratta, secondo me, di una forma di empatia, che anche ogni buon insegnante dovrebbe avere.

D.: Tu come ti trovi ad insegnare?

Olimpiadi di Barcellona, 1992

R.: Bene, faccio di tutto per ribaltare l’assioma “Grande atleta, cattivo maestro”, e mi piace farlo. Nei miei studenti ricerco soprattutto la curiosità e la voglia di non sedersi mai. Spesso non è facile, lo comprendo. Il judo è una disciplina che mette a nudo la personalità e dietro la quale non ci si può nascondere. Oggigiorno, per un giovane, ci sono moltissimi motivi di distrazione, tanto è vero che mi sento di ringraziare sinceramente tutti coloro che iniziano a praticare questo sport (che è anche Arte) con me, o da qualsiasi altra parte, perché potrebbe benissimo fare altre cose!
Come, poi, succede spesso: i ragazzi, dopo un certo periodo di pratica, scelgono davvero di fare altre cose, di prendere altre strade. Molti di loro hanno semplicemente bisogno di una guida, e spesso sembra che ti rispettino solo se lì schiacci…

D.: Comportamento tipico di moltissimo sedicenti maestri di arti marziali italiani, anche bolognesi…

R.: Di solito è chi ha paura del confronto che mette distanza tra sé ed il proprio interlocutore, e si fa chiamare “Maestro”: chi non teme il confronto, invece, spesso lo ricerca. In ogni caso, io preferisco il dialogo, perché solo così avviene lo scambio di conoscenze. A Scienze Motorie, per esempio, io tengo un corso di judo che, dal punto di vista accademico, è un insegnamento complementare: pertanto, nessuno obbliga i miei ragazzi a frequentarlo.

D.: E loro come rispondono?

R.: Bene, perché c’è molta curiosità, specialmente intorno al sincero, diretto confronto uno – contro – uno del judo.

D.: Anno 2005: chi è Emanuela Pierantozzi? Una docente accademica, una Maestra di judo o un’artista?

R.: Un’artista, senza dubbio. Come ti ho già detto, mi sentivo tale anche quando gareggiavo. Pensa che, tanto per fare un esempio, durante le operazioni del peso prima di andare in gara, io osservavo la fisionomia delle mie avversarie e da queste traevo già le mie conclusioni sul loro judo. Quando andavo alle riunioni, io disegnavo bozzetti dei visi dei presenti. Non sentivo un gran bisogno di visionare preventivamente filmati delle loro gare per studiarne i punti deboli.
Grazie alla mia sensibilità tattile ho sconfitto atlete fisicamente più forti di me.
Io amo l’arte perché apre la mente, crea nuovi spazi, ed è per tutti: e, soprattutto, deve essere mostrata a tutti. Senza bisogno di urlare, o, peggio, di violentare. Chi lo fa, e ti assicuro che sono in tanti, usa l’arte per sfogare il proprio malessere, come uno psicodramma.. invece d’andare in cura.

D.: Dalla nostra umile tribuna di Capitasport, c’è un messaggio che vuoi lanciare?

R.: Sì, ed è un messaggio che oggi come oggi è sulla bocca di tutti, ma non è minimamente sentito: il valore educativo dello sport. Specialmente quando si perdono le gare.

D.: Sante parole. Infatti tutti dicono che dalle sconfitte si impara, ma chissà perché tutti preferiscono vincere…

R.: Quando vieni schienato, vieni schienato, punto e basta. E’ successo. A me, a te, a tanti altri. E’ come ti rialzi e come ti guardi indietro che fa la differenza.
In questo senso, è importantissimo essere circondati dalle persone giuste, che non ti viziano e che cercano di farti vedere le cose in modo obiettivo.
Il grande Marco Pantani era un formidabile atleta, che aveva vinto tanto, ma che è stato schiacciato da un sistema che non gli ha dato respiro.

D.: Veniamo al judo propriamente detto. Sono sempre stato incuriosito dal fatto che tu ti allenavi spesso con i colleghi maschi. Non è difficoltoso, in uno sport fisico e di contatto, come questo?

R.: No, affatto. Tieni conto che ho due fratelli maschi…piuttosto, il mio problema era che non amavo talvolta allenarmi con le ragazze perché le trovavo un po’ “molli”, e, d’altro canto, allenandomi troppo con i maschi, finivo per concentrarmi eccessivamente sul lato potenza e perdevo l’abitudine al judo “avvolgente” e sensibile delle donne. Oggigiorno è piuttosto comune trovare judoka di sesso opposto che si allenano insieme, c’è molta parità.

D.: Non possiamo però passare sotto silenzio che la diversità naturale esiste...

R.: Sì, e va esaltata, perché è un valore aggiunto. Come insegnante io sottolineo sempre il vero significato del concetto judo, che tradotto in italiano vuol dire “via della cedevolezza”: la potenza è facilmente allenabile, ma non basta. Il judo è sensibilità: l’avversario forte e potente viene sempre battuto dalla sensibilità, ossia dalla capacità di cogliere il momento di disequilibrio dell’opponente.

D.: Parliamo di training...

R.: Quando ci si allena è fondamentale sviluppare la sensibilità, mediante la pratica con il partner: a questa va unita una robusta preparazione atletica ed un corretto (e sottolineo corretto) programma di allenamento con i pesi, che permetta di sviluppare la forza esplosiva. Quando si è in gara, invece, bisogna concentrarsi unicamente sulla sensibilità: cogliere l’attimo in cui il nostro avversario può essere sbilanciato e….farlo volare!

D.: Il judo è per tutti?

R.: Assolutamente sì: e, con una buona scuola, anche per tutte le età.

D.: In conclusione: tu che vivi, ed hai vissuto, in tante città diverse, che voto daresti a Bologna come città di sport?

R.: A Bologna ci sono tante opportunità di pratica, da questo punto di vista è una splendida città. Tuttavia, accade spesso che ogni comunità sportiva tenda a guardare ognuna esclusivamente nel proprio orto, facendo venire meno una buona comunicazione che sarebbe (Olimpiadi di Atlanta, 1996) molto utile a tutti coloro che vorrebbero essere iniziati alla pratica di uno sport. Questo perché a Bologna c’è benessere. In ogni caso, resta sempre la mia città, dove spero di poter tornare al più presto ed aprire uno spazio judoistico tutto mio.

A presto, allora!

Foto ed informazioni per gentile concessione del sito www.emanuelapierantozzi.com


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