ECCOVI UN ARTICOLO DEL DOTT. ERMANNO VISINTAINER CHE CATTURERA’ LA VOSTRA
FANTASIA ED IMMAGINAZIONE, PORTANDOVI I TERRE LONTANE E SCONOSCIUTE PER FARE LE SUE STESSE
BELLISSIME ESPERIENZE, COSI’ TANTO BEN RACCONTATE NEI MINIMI PARTICOLARI.
Eej Khad La Roccia Madre
Eej Khad - Töv Aimag – Mongolia
Di: Dott. Ermanno Visintainer
Tratto da:
L’intensa e ieratica esperienza intrisa di allegorismi uranici, descritta
nell’articolo, riguardo l’ascensione alla Montagna Sacra o Bogd Uul, in Mongolia, in occasione del
primo corso di massaggio thailandese in quest’immenso paese, non è stata ovviamente l’unica
condivisa dal gruppo. Così anche qui nel descrivere quest’altra memorabile giornata connessa ad un
simbolismo opposto seppur complementare: la visita alla Roccia Madre o Eej Khad, non posso esimermi
dal raffrontarla con il testo cosmogonico scolpito nelle plurimillenarie steli della cosiddetta
“Genesi dell’Orkhon”, magistralmente commentato nel libro di J.P.Roux sulla religione dei Turchi e
dei Mongoli.
Primo piano
“Quando l’azzurro Cielo (Tängri) in alto e la grigia Terra (Yer) in basso
furono creati, fra i due fu creato il genere umano (…)”, dice il testo, ed ancora altrove: “Perché
il Cielo in alto e la Terra in basso lo hanno ordinato”. J.P.Roux, nel suo libro, glossa il
testo così: “La Terra formata contemporaneamente al Cielo, nel testo, è la zona cosmica
inferiore, asra, come il Cielo è azzurro, kök, essa è bruna, cupa, yagïz. Nella misura in cui asra
si oppone a üze, “alto”, “elevato”, Yer si oppone a Tängri e così
yagïz a kök. Se ne può concludere che la Terra è complementare al Cielo e, naturalmente, molto più
vicina agli uomini”. Quindi il Cielo, maschio, ha il suo complemento nella Terra, femmina.
Nella Storia Segreta dei Mongoli questa coppia è presentata in piena eguaglianza:
“Ricevendo dal Cielo e dalla terra una forza accresciuta, designati dal Cielo onnipotente e
portati alla meta dalla Terra-madre (…)”. Non sviscereremo certo in questa sede, tutto il
simbolismo associato con le qualità cosmiche, di cui, soprattutto per quanto riguarda quella
femminile, abbiamo trattato esaustivamente nel nostro articolo sul
Massaggio sciamanico tuvino, tuttavia qualcosa da integrare di certo non manca.
Il concetto di Yer, peraltro, nel testo spesso allegato a quello di Sub, in un’endiade:
Yer-sub (terraqueo), viene qualificato con l’aggettivo ïduq, in tuvino moderno ïdïq, tradotto spesso
con “sacro” ma più propriamente significante “lasciato libero” in quanto sede di ierofania numinosa
(verosimilmente il termine stesso ïdïq deriva da idi o ïdï, peraltro attestato in antico turco, nel
suo assetto vocalico posteriore), ovvero un insieme di luoghi dove, quasi lambendo una certa
sensibilità ecologica moderna è proibito cacciare, pescare, tagliare alberi, etc., in quanto i
terreni sono abitati dagli ezen o idi, gli spiriti padroni-possessori.
Questa volta apprendiamo notizia del luogo che intendiamo visitare leggendo il
libro di Roberto Ive che ci accompagna durante il viaggio, in cui egli descrive il suo
“pellegrinaggio”, perché poi di questo si tratta, in questo luogo “sacro”: “Da tempo immemorabile
– scrive Ive -, Eech Had è un’irresistibile calamita per la gente della capitale. E' da sempre,
il luogo in cui si va a rendere omaggio allo spirito della terra, invocando la sua protezione e la
sua fertilità”.
La Roccia Madre o Eej Khad è tuttavia oggigiorno anche una meta di
visita per i poteri curativi attribuitile. Tuttavia nel clima di caccia alle streghe instauratosi
durante gli anni più bui del passato periodo comunista, la visita alla roccia era considerata un
reato politico e nel tentativo di estirpare qualsivoglia manifestazione religiosa o ispirata alla
devozione popolare, si era cercato di distruggere con dell’esplosivo questa “Roccia” ritenuta
reazionaria, ma invano, tant’è che alcuni artefici di tale progetto scomparvero improvvisamente e
misteriosamente o furono colpiti da sventure.
Partiamo quindi di buon ora dal nostro appartamento ad Ulaan Baatar con l’auto
di mio cognato, la distanza non è eccessiva, circa 90 km a sud della città, ma come sempre accade in
Mongolia, quello che in Europa può sembrare un dettaglio trascurabile, ovvero un così esiguo
spostamento, a quelle latitudini può trasformarsi in un problema abbastanza consistente.
Lasciamo la città, costeggiando il rilievo montuoso situato a sud della capitale
e ci dirigiamo verso la cittadina di Zuunmod. Per una quarantina di chilometri il percorso è anche
ameno, si attraversa una sorta di valle in cui si scorgono armenti e accampamenti di ger. Quindi si
giunge ad un passo dove c’è un grande Ovoo attorno al quale si devono tassativamente eseguire i tre
giri apotropaici di rito, con copiose aspersioni di vodka sulle pietre.
Arrivati a Zuunmod ci si pone un altro particolare anch’esso del tutto inusuale
in Europa, ma la strada conducente alla Roccia Madre dov’è? Dove inizia? Ovviamente non ci sono
indicazioni e bisogna quindi aspettare qualcuno cui chiedere. A questo punto ci si presenta innanzi
uno scenario alquanto inquietante: una lunga retta avente l’aspetto di una strada, mezza sterrata e
mezza asfaltata, ma con buche così profonde da demotivare chiunque ad avventurarvisi sopra. In quel
frangente mi viene da pensare - meno male che l’anno scorso il premier turco Erdoğan, in occasione
di una visita in questo paese dei suoi avi, aveva stanziato cinque milioni di dollari per la
costruzione di strade, altrimenti che faremmo? - mentre, quasi subito mio cognato, con una manovra
improvvisa, esce di strada e inizia a percorrere una delle decine di polverose piste che s’inoltrano
nella steppa appena evidenti tra l’erba ed i cespugli.
Qui avviene un ulteriore ribaltamento di prospettive: non c’è più un’unica
strada, un’unica via bensì molte, spesso apparentemente opposte, e contrastanti che conducono tutte
nella medesima direzione, oppure no; ma alla fine dei conti cosa importa? In un tale contesto viene
anche a mancare lo stress, l’ansia del conseguimento di un traguardo preciso. E qui il primo
accostamento che mi viene spontaneo di fare è quello inerente all’accezione spirituale di “via”,
come ricorda un noto adagio sufi ma non solo.
Un altro raffronto, sempre sulla falsariga di certi accostamenti che nella nostra
mente scaturiscono dai pensieri associativi, è quello che Asokananda ci fece in occasione di un
seminario riguardo all’aporìa esistente, sollevata da alcuni, circa la differenza tra i vari stili
orientali di massaggio. “Per capire la differenza tra il massaggio thailandese ed altri analoghi
stili - disse - si potrebbe fissare lo sguardo su una carta geografica di un paese.
Ipotizziamo - continuò - che uno stile come lo shiatsu, - in mera virtù della sua notorietà -
rappresenti i percorsi principali di questo paese, come le autostrade.
Ebbene il massaggio thailandese rappresenterà dei percorsi secondari,
alternativi, magari più lenti, di certo meno artificiosi, ma per questo non meno validi, ovvero
conducenti alla stessa mèta: quella del ripristino dell’equilibrio energetico”.
Un po’alla volta però, quest’assorbimento in pensieri legati all’attività svolta
in Mongolia, viene ad essere assimilato dal paesaggio esterno, caratterizzato da uno scenario di
spazi immensi solcati da piste e incoronati da colli, monti, passi da valicare ed Ovoo cui officiare
circumambulazioni rituali, in cui di tanto in tanto, si scorge una nube polverosa che è indice della
presenza di un mezzo.
Ad un certo punto ci fermiamo in prossimità di una ger di nomadi per chiedere
informazioni sulla strada. Fa un po’specie notare dei pannelli solari posti sul tetto della ger,
questa commistione così estemporanea di tradizione e tecnologia. Quindi risaliamo in macchina e
proseguiamo, ad un certo punto scorgiamo a distanza una sorta di cinta muraria, un edificio sacro,
per la precisione l’eremo di Dašpeljeelin, cui ci appropinquiamo per chiedere altre informazioni; ma
qui il silenzio, il vuoto quasi noetico ed imperioso creato da quest’ambiente così peculiare, evoca
in me delle sensazioni molto particolari.
È qualcosa che mi rammenta letture fatte in passato, nella fattispecie quelle
dell’esoterista René Guénon e del suo saggio: “Il Re del Mondo”, ispirato al racconto del
viaggiatore Ferdinand Ossendowski, “Bestie, Uomini e Dei”, che renderà fama imperitura a tale
leggenda, ed il cui tema, poi ripreso nell’omonima celebre canzone di Battiato, afferma l’esistenza
celata di un regno sotterraneo, detto Agarttha, situato nelle viscere della Mongolia. "Hai veduto
- mi chiese la guida - come i cammelli muovono le orecchie, impauriti? E quel branco di
cavalli nella pianura che è rimasto immobile e attento? E le greggi, e le mandrie accasciate a
terra? E gli uccelli che non volano, e i cani che hanno cessato di abbaiare? Così accade sempre
quando il Re del Mondo, nel suo palazzo sotto terra, prega e scruta i destini di tutti i popoli e
tutte le razze".
La scena - descritta da Ossendowski nel citato libro, si svolge in Mongolia; il
palazzo dove prega il Re del Mondo si trova nel Regno di Sotterra. Questo regno che, secondo la
leggenda, si estende sotto gran parte dell’Asia, collegato a tutti i luoghi della Terra tramite una
fitta rete di passaggi sotterranei, è un territorio immenso celato alla vista degli uomini e
popolato da esseri semidivini. Esistente fin dalla notte dei tempi e prosperato alla luce del sole,
durante l’"Età dell'Oro", con l’epiteto di "Paradeša"; essendosi trasferiti i suoi abitanti,
all'inizio del Kalī Yuga - कली युग della tradizione indù, nel sottosuolo per
evitare di essere contaminati dal male, convertì il proprio nome in Agharti o Agarthha,
"l'inaccessibile".
Ritornando al nostro viaggio, accediamo al tempio dove ci riceve un abate anziano
con una fluente barba e dall’aspetto veramente ieratico, ci accoglie e ci fa da guida. Si tratta di
un eremo tantrico Kālacakra कालचक, che rammenta quelli citati
dall’esploratore Sven Hedin nelle sue peregrinazioni, alla ricerca dell’Agarthha nello Xinjiang, o
quelli visitati dal nostro grande orientalista Giuseppe Tucci, che, a quante pare, situò il regno
nella regione attraversata dal fiume Tarim.
L’eremo è una costruzione strutturalmente modesta, quanto imponente dal punto di
vista dell’impatto emotivo. Il suo interno è come un caleidoscopio dalle tinte forti e contrastanti:
gialle, rosse, blu, verdi, bianche e zafferano, elementi cromatici caratteristici del buddhismo
tibetano, nonché saturo d’addobbi e paramenti sacri, effigi e reliquie. Poi l’abate, indossati i
paramenti s’avvicina con una specie di scettro, una verga avvolta in khadag azzurri e la pone, con
un gesto di benedizione, sulla fronte di ciascuno di noi. Mi sento letteralmente cedere le gambe e
contemporaneamente pervadere da una sorta di leggerezza e di serenità che mi attraversa. Quindi,
prima di prendere commiato, ci dà delle indicazioni per proseguire.
Lasciamo il monastero e riprendiamo la marcia verso la Roccia Madre e cominciamo
ad affiancare dei rilievi rocciosi, molto erosi dagli agenti atmosferici, quasi ad evidenziarne
l’arcaicità, quindi dopo un po’scendiamo verso una depressione. In lontananza notiamo una roccia
piuttosto grande ed avvolta in khadag, per un istante pensiamo di essere giunti a destinazione, ma
presto ci rendiamo conto che quella non è la nostra meta, bensì solo la sua prefigurazione.
Avanziamo ancora lentamente onde non rovinare il fondo dell’automobile, già
duramente provato dal viaggio, allorché dietro una collinetta improvvisamente ci appare il luogo. -
Questo è veramente l’accesso all’Agarthha - penso tra me emozionato. In realtà la roccia non è
immediatamente visibile, bensì è come occultata, “velata da sguardi indiscreti”, ovvero da una cinta
muraria circolare.
Ovviamente il luogo è ïduq, ovvero è sacro nell’accezione innanzi esposta, e lei
stessa, cioè la Roccia ne è l’Ezen, poiché gli ezen possono essere anche femminili. Il silenzio,
l’immobilità sovrastante della natura rende il luogo veramente saturo di un alcunché di numinoso, si
notano persone dedite a questo culto litolatrico, che eseguono delle circumambulazioni rituali
attorno alla cinta, aspergendo vodka, latte etc., ma a dire il vero nelle sue modalità tale
immagine, più che quella commistione sincretistica fra sciamanismo e buddhismo tibetano, così
eterodossa e peculiare di questa terra, evoca in me quasi in maggior misura, reminiscenze dei luoghi
consacrati alla fede islamica, come il mausoleo di Haji Bektaš in Cappadocia, oppure le tombe dei
Marabutti che si trovano disseminate qua e là viaggiando nel Sahara .
Qui le sensazioni precedentemente provate presso il tempio, s’intensificano.
Dentro di me, intimamente, sento di essere approdato ad una sorta di capolinea di innumerevoli
letture, interiorizzate nel corso degli anni. In realtà non abbiamo ancora un’idea precisa di
quello che ci aspetta, sebbene ci siamo ormai resi conto che il termine “roccia” stia ad indicare
qualcosa dalle proporzioni alquanto ridotte.
Ci avviciniamo alla cinta sacra e sbirciando dall’ingresso verso l’interno della
struttura ai nostri occhi appare un monolito epigeo, vagamente antropomorfo, dell’altezza di circa
un paio di metri, avente fattezze inequivocabilmente muliebri, avvolto, ovvero quasi “velato” in
drappi sacri, come alcune statue del Buddha ed in posizione semieretta o assisa su una sporgenza
conica che ricorda la Dea dell’omphalos del tempio di Apollo.
La roccia, infatti, possiede due procidenze laterali molto stilizzate simili alla
postura di certe veneri post-paleolitiche o di certe dee cretesi e cananee ofiofore.
Il luogo effonde nell’aria un’intensa fragranza di Artz, l’incenso ottenuto dalla
polvere del ginepro siberiano e latte, mentre all’interno della cinta le persone svolgono
ordinatamente le loro circumambulazioni rituali e non sembrano essere troppo disturbate dalla nostra
presenza, presumibilmente inconsueta. Da quest’estemporaneo parallelismo: fra un santuario mariano
ex voto con i citati oracoli paleoellenici, traspare, in effetti, un’atmosfera veramente singolare e
magica che allude ancora alla leggenda del Re del Mondo.
Alcuni devoti stabiliscono un contatto con il blocco litico e, con le mani
raccolte, sussurrano insufflando qualcosa verso il suo interno quasi per udirne lì o più avanti un
responso od un vaticinio. Anche noi quindi ci apprestiamo ad eseguire tali riti con le offerte
portate appresso, fra cui un set di khadag azzurri acquistati ad hoc al mercato Naran Tuul di Ulaan
Baatar, assistiti dal cognato per quelle operazioni in cui non siamo troppo avvezzi.
Appropinquatomi ulteriormente all’effigie ginecomorfa, nella consapevolezza del
suo simbolismo ctonio, nonché di tutte quelle implicazioni sviscerate in riferimento ad un lignaggio
femminile di trasmissione di una saggezza legata alla pratica delle tecniche di guarigione, espresse
nell’articolo sul massaggio sciamanico, riconosco altresì in essa istintivamente qualcosa che -
scusandomi con il lettore per l’adiabatica autoreferenzialità con cui mi accingo ad esprimere questo
stato d’animo - genera in me una profonda emozione.
L’enigmatico e petroglifico volto della figura, pur così sommariamente abbozzato
nella dura roccia con quei suoi tratti essenziali e con la sua espressione me ne rammenta uno
scolpito indelebilmente negli anfratti della mia memoria; mentre, la sua postura statuaria evoca
altresì i lineamenti di certi eren od ongon, questi feticci omologhi ai lari ed ai penati della
tradizione etrusco-romana.
E così da questa sorta di gorgo procelloso d’immagini e d’emozioni che irrompono
nella mia mente, amalgamandosi e sovrapponendosi ad altre, riverberano, come attraverso un prisma
dai molteplici riflessi, reminiscenze di luoghi, volti e situazioni.
Così sorge in me spontaneo, in quel frangente, un raffronto con la precedente
summenzionata giornata, altrove descritta, con cui riscontro una forte complementarietà e mi sembra
di riconoscere, altresì nell’Eej Khad, quella divinità paredra di Tänger, o Tängri delle epigrafi
orkhonidi, ovvero un santuario primigenio dedicato al culto di Yer o Yer-sub, la Terra-madre degli
antichi Turchi e l’Edügen o Gazar Eej dei Mongoli.
Conscio dell’audacia di tale asserzione, prescindendo dalle "anfibologie del
caso", preciso che affermo ciò in quello stile sincretistico, intriso di elementi storici,
suggestioni leggendarie e di riflessioni filologiche, da me scelto per la stesura dell’articolo. Non
intendo assolutizzare tali affermazioni. Certo è che in Mongolia le stratificazioni sono molteplici
e perciò non ritengo essere la cosa del tutto peregrina.
La Mongolia è stata, del resto, terra d’etnogenesi di varie popolazioni: prima
gli Unni o Hsiung nu (circa III sec. a.C.), quindi gli àvari o Juan Juan, poi i Turchi Celesti o
Kök Türkleri, verso il 500 d.C.; ed infine i Mongoli di Genghis Khan.
Peraltro, in senso più esteso, ovvero includendo l’area di diffusione della cultura mongola, anche
terra d’etnogenesi di culture indoeuropee (Andronovo, Tagar), nonché di popolazioni paleosiberiane
come la ket, una delle più enigmatiche dell’Asia, che pare essere linguisticamente affine ai Burusho
o Hunza del Pakistan settentrionale, mentre recenti studi sierologici sul DNA l’hanno posta in
relazione con le popolazioni del Sud-est asiatico.
Già abbiamo fatto riferimento agli scritti di René Guénon e di Ferdinand
Ossendowski. Leggende antichissime insistono sul fatto che l’umanità sia nata in Mongolia e che qui,
nascosto in una dimensione inaccessibile ai profani, si celi il mistico Re del Mondo. Non
tralasciamo, comunque, di ricordare, onde evitare di dare un taglio eccessivamente esoterico al
nostro scritto, l’attrazione che, tale mito, legato peraltro alle remote origini dei Turchi in
Mongolia, ammiccato dallo stesso premier turco Tayyıp Erdoğan in occasione
della sua recente visita, l’anno scorso, in questo paese, ha esercitato sull’intera storiografia
turca, fra i cui esponenti di spicco annoveriamo il laicissimo Kemal Atatürk, fondatore della
moderna Turchia, unitamente al suo teorizzatore ed ideologo Ziya Gökalp.
Alla fine di tutte queste riflessioni usciamo dal recinto sacro e, nelle
prossimità, all’ombra di un gazebo, mentre consumiamo un frugale pasto, osserviamo i pellegrini che
accedono numerosi al sito sacro a bordo dei loro mezzi provenienti dalla capitale. Quindi risaliamo
in macchina e ci rimettiamo in viaggio, sulla strada dissestata e polverosa alla volta di Ulaan
Baatar.
Anche questa volta, mentre ci allontaniamo dal sito, colmi di soddisfazione per
la giornata tanto densa di eventi straordinari, siamo accompagnati da un lieve senso di malinconia
dovuto alla nostalgia, che la separazione da tale luogo già suscita in noi.
Una riflessione a posteriori sulla documentazione
fotografica
Raggi blu sul Sacro Recinto della Roccia Madre
Nella cernita delle fotografie, durante l’impaginazione dell’articolo
Mongolia: Eej Khad, la Roccia Madre, ci siamo accorti di un fenomeno alquanto curioso inerente
ad una di queste immagini. Si tratta della fotografia che mostra l’area, circostante alla recinzione
sacra, in cui è “occultata” l’ Eej Khad.
Vale a dire, nella foto è possibile scorgere una sorta d’effluvi fotici
trasversali o disposti a raggiera, di provenienza uranica. Probabilmente delle comunissime
irradiazioni solari, o una qualche rifrazione di luce dovuta ai consueti khadag[1][1]
di un intenso turchino. Nel particolare frangente, questi “raggi blu” vengono però ad assumere una
valenza alquanto misteriosa e davvero suggestiva, soprattutto considerando la tonalità
turchino-celeste che s’intravede nella zona dell’Ovoo, sulla destra della foto stessa, dove queste
effusioni sembrano quasi avvolgere le persone. (vedi qui i dettagli ingranditi della foto)
Ricordiamo la dovizia di riferimenti a siffatti fotismi nella religione e nella
letteratura dei popoli turchi e mongoli. Si tratta essenzialmente di ierofanie celesti, ovvero
manifestazioni del sacro, riferite a Tängri, questa massima divinità del pantheon turco-mongolo,
pressoché omofona al Dingir sumerico che, più tardi, fu assimilata al dio islamico.
Nella Storia Segreta dei Mongoli, ad esempio, si narra che Alan Qo’a, destatasi
una notte, notò una luce proveniente dalla luna che penetrava nella sua stanza assumendo le
sembianze di un leone o di un lupo, rendendola incinta.
Un’altra tradizione riferisce che un giorno, mentre Oğuz Khan pregava Tängri,
all’improvviso una luce azzurra discese dal cielo. “Brillava più del sole e della luna. Oğuz si
diresse verso quella luce: nel mezzo di questa luce v’era una ragazza bellissima (…)”.
Riflessi di tale mito si ritrovano in racconti calmucchi o khitan, come rammenta
J.P.Roux nella sua opera citata all’inizio. Postulando questa volta un’anfibologia del caso, ci
azzardiamo egualmente ad accostare queste ultime annotazioni alle tematiche sviscerate
nell’articolo, delegando al lettore la formulazione di un giudizio conclusivo, circa l’autenticità
dell’inconsueto fenomeno fotico.
L’AUTORE: Chi è Ermanno Visintainer?
Asokananda's
Authorized Teacher senior della scuola: “The Sunshine Network”
vd.
http://thaiyogamassage.infothai.com/thaimassage.html
Nato in Italia nel 1961, laureato in Lingue Orientali all'Università
di Venezia, con il massimo dei voti, è un’orientalista eclettico ed appassionato, con
un’autorevole formazione universitaria alle spalle. Dal 1981 pratica Kung-Fu, Aikidō,
Tai Chi Chuan, Chi Kung e attinenti tecniche di meditazione. Nel 1986, analogamente alle
arti marziali, si interessa alle varie tecniche del massaggio. Durante un viaggio in
Thailandia, si accosta, per la prima volta, al massaggio tradizionale thailandese, il
Nuad Borarn, verso il quale avverte un immediato e profondo coinvolgimento. In Italia,
intraprende il percorso di formazione e di studio riguardante varie tecniche inerenti
sia al massaggio che alla medicina naturale, che porta a termine nell'anno 1991, con il
conseguimento del Diploma triennale in medicina naturale ed iridologia, presso
l'”Accademia Galileo Galilei”, a Trento. Nello stesso anno ritorna in Thailandia dove,
non dimentico del fascino, nonché dell'originalità, del massaggio thailandese, si dedica
allo studio del Nuad Borarn e all’approfondimento dei segreti di quest’antica arte.
Segue i programmi di varie scuole ed alla “Foundation of Shivago Komarpaj” presso l'Old
Medical Hospital di Chiang Mai, nel nord della Thailandia, consegue il diploma.
Al
suo ritorno in Italia comincia a praticare il massaggio Nuad Borarn e nel 1994 diviene
allievo ed amico di
Asokananda (Harald Brust), l'esponente di maggior rilievo a livello internazionale
di questa disciplina e autore di vari libri sull'argomento, precursore e leader del Thai
Yoga Massage in Occidente. Nel 1997 consegue il “Certificate of Achievement” per il
livello di Istruttore autorizzato della scuola di Asokananda, la “International Society
for Traditional Yoga And Thai Massage”, con sede a Chiang Mai, in Thailandia, e insegna
il Nuad Borarn in numerosi corsi di formazione, sia in Austria che in Croazia e in
Italia. Nel 2003 su invito di Asokananda, trascorre un lungo periodo in Nuova Zelanda,
presso la TYMANZ - “Thai Yoga Massage Association of New Zealand” di cui è membro, e
nelle città di Auckland e di Rotorua, dirige l'attività di insegnamento per conto della
succursale neozelandese. Attualmente risiede tra Italia e Mongolia, paesi in cui pratica
ed insegna il Nuad Borarn. È Vice presidente e Direttore Tecnico nonché socio fondatore
di A.T.T.Y.M.I. l’Associazione di Thai Yoga-Massage Tradizionale Italia
Sul nuovo sito di Ermanno
www.al-thai.com
mailto:ermanno@al-thai.com troverai altre informazioni interessanti.
Dott. Ermanno Visintainer - Pergine Valsugana, Trento -
erenvis@yahoo.it
Asokananda's Authorized Teacher senior
ermanvis@al-thai.com - tel:
00393407667936 |
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