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CONTINUA L’AUTOREVOLE OPERA DELLA NOSTRA NUOVA COLLABORATRICE MANUELA SIMEONI, ULTIMAMENTE AGGIUNTASI ALLA FOLTA SCHIERA DEI NOSTRI ATTIVI SOSTENITORI. QUESTA VOLTA CI PARLA DEL PANCRAZIO, UNA FORMA DI COMBATTIMENTO “SPORTIVO” PRATICATO NELLA ANTICA GRECIA.  ECCO CHE LE NOZIONI RIPORTATE, CON APPREZZABILI RIFERIMENTI, CI RICHIAMANO ALLA MENTE SCOLASTICHE MEMORIE STORICHE… SICURAMENTE AVREMMO POTUTO APPREZZARLE MAGGIORMENTE SE CI FOSSERO STATE PRESENTATE IN MANIERA COSI ACCATTIVANTE E SIMPATICAMENTE LEGATE AGLI SPORT ODIERNI.  UN MODO ESPOSITIVO CHE AVVALORA ULTERIORMENTE I SUOI CONTRIBUTI.

PANCRAZIO

Di: Manuela Simeoni

Negli ultimi anni, nel panorama delle arti marziali, si osserva una crescente tendenza alla ricerca  delle cosiddette “arti marziali occidentali”, o, per meglio dire, delle arti da combattimento praticate in occidente nei secoli passati. Per questo fioriscono una serie di palestre che, più o meno accuratamente, con ottimi studi alle spalle o spinti solo dal desiderio di cavalcare l’onda, ripropongono le tecniche di combattimento passate. Quando questa ricerca incontra l’amore per l’antichità classica, ecco che si ripropongono scuole di gladiatori (i quali però non praticavano una vera e propria arte marziale, ma più uno spettacolo, anche se comunque correvano il rischio di essere feriti o uccisi) e di lotta greca.  Purtroppo per questo tipo di ricostruzione storica possiamo contare su poche fonti: scarse fonti letterarie, tra cui la principale sono le opere di Omero, ma soprattutto le pitture vascolari, che ci danno un discreto campionario di prese e tecniche. Non sappiamo però quanto, in quest’ultimo caso, sia una rappresentazione realistica dei colpi e delle prese impiegate e quanto invece corrisponda ad esigenze di rappresentazione (un po’ come le acrobazie che si vedono in certi film moderni di arti marziali).

La lotta greca antica, così come il pugilato, era diversa da quella attuale; ne esistevano di due tipi, il “pale”, che in greco significa lotta, e l’ “orthepale” che significa letteralmente lotta perpendicolare, sottintendendo “al terreno” e quindi lotta in piedi. Le origini della lotta greca, come anche del pancrazio, che vedremo più avanti, sono da ricercarsi nelle necessità di guerra: come ci riporta anche Erodoto, nel racconto della battaglia di Salamina, la battaglia si svolgeva principalmente corpo a corpo e spesso con le mani anziché con le armi. Senza dubbio la lotta aveva origini molto antiche, qualcuno sostiene, come per il pancrazio, addirittura egiziane, dal momento che nelle tombe egizie è raffigurato qualcosa di simile (si vedano le decorazioni pittoriche di una tomba a Beni Hassan); sappiamo che venne introdotta alle olimpiadi nel 708 a .C. e che subito andò a completare il pentathlon antico, ma già Omero ci parla di gare di lotta, sia nell’Iliade che nell’Odissea. Tali gare avevano scopo celebrativo, di un morto illustre come Patroclo nell’Iliade, di un ospite di riguardo nell’Odissea; le regole presentate da Omero dovevano essere le più diffuse: la vittoria si otteneva facendo cadere tre volte l’avversario ed evitando di cadere a propria volta (il punto era annullato se entrambi i contendenti cadevano). L’orthepale non comprendeva la lotta a terra, mentre pare che il pale la contemplasse e che quindi in questo caso si ottenesse la vittoria con la sottomissione completa o la resa dell’avversario; alcuni studiosi pensano però che il pale fosse l’antenato del pancrazio e che scomparisse una volta che quest’ultimo andasse in auge.

I lottatori si disponevano nell’arena uno di fronte all’altro, con il busto inclinato e le braccia protese, per studiarsi prima di attaccarsi: erano permessi attacchi di fronte, di lato e tutti i tipi di prese, leve, proiezioni e spazzate per far cadere l’avversario. Non c’erano prese proibite: da una commedia di Plauto, autore latino arcaico, si deduce che fosse possibile anche afferrare per i piedi. Una delle prese che doveva essere la più tipica, almeno a giudicare dalle raffigurazioni sulle ceramiche, veniva detta “meson echein” cioè “prendere in mezzo” e consisteva nell’afferrare davanti o alle spalle l’avversario, premendo con la testa sul torace (ma più probabilmente al plesso solare) o sulla schiena, in modo da allentarne la tensione muscolare e permettere una proiezione, ruotando e abbassandosi, o uno strangolamento alle spalle. Anche la proiezione cosiddetta “rovesciata” è attestata dalle raffigurazioni.

Una delle gare più interessanti dell’antichità, anche per essere, in fin dei conti, l’antenato di alcune gare moderne come il valetudo o il free fight, era il pancrazio.

La parola greca significa letteralmente a tutta potenza (dal greco “pan”, tutto, e “kratos”, forza): era una gara molto dura, alla quale approdavano gli atleti che avevano già esperienza nella lotta e nella quale erano permessi tutti i colpi e tutte le tecniche e prese a terra, soprattutto a Sparta, mentre altrove erano almeno proibiti, a seconda della città che ospitava la gara, graffi, morsi e ditate negli occhi. La gara si vinceva per resa dell’avversario, per ko o morte di questo o con la sua completa sottomissione, anche se esisteva una forma più leggera, il “kato pankration” in cui era sufficiente far cadere l’avversario e che di solito era applicata nelle eliminatorie o in giochi di minore importanza. I calci erano tra le tecniche più impiegate, all’inguine o allo stomaco per far cadere l’avversario, mentre poco usati erano i calci sopra il livello della cintura: si calciava alla faccia solo l’avversario che era già caduto a terra e che era troppo indebolito per parare l’attacco. In una pittura vascolare vediamo un atleta che, schivato di lato il calcio dell’avversario, ne afferra la gamba per fargli perdere l’equilibrio. Anche i pugni, diretti, ganci e montanti, erano naturalmente utilizzati: uno dei colpi più amati era il pugno a martello sulla nuca dell’avversario nella fase di “clinch”. Ma la gara si decideva spesso al suolo, con prese, leve e strangolamenti e si sa di atleti meno forti del loro avversario, che si gettavano a terra apposta per evitare la fase in piedi e passare direttamente a quella a terra, dove per loro era più facile affrontare anche i più massicci. Alcuni atleti, anche se per questo disprezzati dagli altri lottatori, puntavano a rompere le dita dell’avversario, togliendogli buona parte della sua forza già durante la fase in piedi della gara: questo era possibile anche nel pugilato, dove, a differenza che nella boxe moderna, erano permesse prese ai polsi (e anche calci: la pigmachia greca era più simile alla moderna kick boxing che alla boxe). Questa tecnica era tipica di atleti molto forti, che si allenavano specificamente per evitare che l’avversario potesse ritorcere contro di loro la presa. Si diceva che Milone da Crotone, uno degli atleti più famosi del pancrazio, potesse spaccare un melograno stringendolo in una mano sola, tale era la sua forza. Per l’allenamento, si usava stringere in mano sacchetti di sabbia.

La gara, di pancrazio ma anche di lotta, si svolgeva su terreno fangoso o sulla sabbia, in un’arena quadrata di circa tre metri e mezzo- quattro metri, abbastanza piccola da incoraggiare l’azione a distanze ravvicinate. Gli atleti, che si erano massaggiati d’olio, al duplice scopo di riscaldare i muscoli e rendere più difficoltose le prese dell’avversario, si disponevano uno di fronte all’altro. Gli studiosi hanno individuato due tipi di guardie impiegate, una frontale simile a quella delle arti marziali moderne, ma con le braccia un po’ più distese per deviare i colpi avversari e contemporaneamente cercare di entrare nella guardia altrui, una detta “fasciante”, con un gomito a proteggere la radice del naso, pronto per essere usato anche a mo’ di sperone. Ma l’applicazione di quest’ultima non appare del tutto chiara. Raramente si usava bendare le mani con delle strisce di cuoio imbevuto di olio d’oliva. A sorvegliare il rispetto delle regole c’erano due giudici armati di frustino, che serviva a richiamare l’atleta scorretto con un colpo sonoro e doloroso, anche se non causava lesioni. Non esistevano limiti di tempo, fatta eccezione per lo “spareggio” se il vincitore non poteva essere decretato entro il tramonto, né categorie di peso; l’abbinamento degli atleti per gli incontri avveniva per sorteggio: ogni atleta estraeva da un’urna una tessera con una lettera dell’alfabeto e combattevano insieme i due atleti che avevano la stessa lettera. Se il loro numero era dispari, uno di questi passava il turno senza la fatica del combattimento, ma si trattava quasi di una vergogna. Una volta che i giudici avevano selezionato i contendenti, non era permesso ritirarsi: lo fece un tale… Lo “spareggio” avveniva in modo piuttosto singolare: a turno, uno degli atleti chiedeva all’avversario di assumere una certa posizione (ad esempio di tenere le braccia alte o basse) e quindi lo colpiva, una sola volta, tentando di farlo cadere, quindi era il turno del suo avversario. Si narra di un certo Creugas che chiese al suo avversario Damoxeno di tenere le braccia basse e lo colpì al volto; quando fu il suo turno, Damoxeno chiese di alzare le braccia e quindi sferrò un colpo con la mano aperta, perforando il ventre di Creugas, uccidendolo. Fu squalificato perché i giudici contarono un colpo per ogni dito, quindi egli aveva infranto le regole, sferrando cinque colpi anziché uno.

Il pancrazio, che forse ha anch’esso origini egiziane (ma secondo altri minoiche) e che si dice inventato da un tale Leukaros, fu introdotto tra i giochi olimpici nel 648 a .C. e fu un successo immediato. Molti pancratisti divennero delle vere leggende: tra questi il già citato Milone di Crotone, che avrebbe ucciso un toro a mani nude, se lo sarebbe caricato sulle spalle per un giro dello stadio di corsa, e quindi l’avrebbe mangiato; famoso divenne anche Arrichione, che vinse una gara da morto: nonostante il suo avversario lo avesse bloccato con una presa al collo fatta con i piedi, riuscì a divincolarsi e a troncargli un alluce con un morso, ma morì ugualmente soffocato probabilmente dallo stesso alluce che gli chiuse la gola. Ugualmente famoso, ma meno tragicamente, divenne Strepsiade di Tebe, cui il poeta Pindaro dedicò un componimento; così anche Sostrato di Sicione detto “lo spezzadita”, nominato da Pausania. In generale però tutti i vincitori del pancrazio erano l’orgoglio della città da cui provenivano.

Alla lotta e al pancrazio venivano attribuite origini mitologiche e divine: si diceva che Teseo, l’eroe vincitore del Minotauro, l’avesse insegnata agli uomini dopo averla appresa dalla dea Atena. Il fatto che venisse posta alle origini di questa specialità la dea della ragione ci fa capire come la lotta non fosse per i greci una mera questione di forza, ma che veniva apprezzata la strategia e l’abilità del combattimento. Un’altra divinità cui erano legati i pancratisti era ovviamente Eracle: secondo altre leggende infatti il pancrazio ne ricorderebbe la vittoria sul leone di Nemea. Si capiscono quindi le leggende di Milone, che uccise un toro, e di altri pancratisti che affrontarono, almeno stando a quanto raccontano le fonti dell’epoca, dei leoni o delle belve. Può darsi si trattasse in questi casi di una sorta di rappresentazione rituale in cui si ricordavano le gesta dell’eroe fondatore della disciplina. Certo è che il vincitore del pancrazio era spesso paragonato a Eracle o chiamato “figlio di Eracle” se aveva vinto in una stessa olimpiade sia il pancrazio che la lotta, e rappresentato come l’eroe con una pelle di leone. Sulla scia di questa divinità, che divenne poi popolarissima in Italia, forse a seguito dell’identificazione con una divinità locale (il culto di Ercole venne presto adottato da tutte le popolazioni italiche, non solo dai romani ma anche dai celti dell’Italia settentrionale, che lo avvicinavano al dio Ogmios), il pancrazio divenne altrettanto popolare a Roma. I pancratisti greci, anche se allettati dai generosi compensi, non scesero praticamente mai nell’arena con i gladiatori, ma continuarono a partecipare alle gare della loro specialità, che i romani preferivano alla lotta perché più sanguinose, anche se in realtà i romani che si allenarono come pancratisti furono veramente pochi. Dall’altro lato del mondo, il pancrazio giunse fino in Asia con le truppe di Alessandro Magno, ma forse è esagerato affermare, come fanno alcuni, che fu alla base degli stili di lotta poi sviluppatisi in quelle zone e in età moderna reimportati in occidente.

L’atleta del pancrazio era infatti un vero e proprio professionista: secondo Filostrato doveva essere più alto della media, ben piantato, con il collo regolare, spalle robuste, vene interne, ventre non sporgente, petto forte, natiche normali, braccia e cosce robuste, fianchi agili, gambe dritte. Come gli altri atleti osservava una dieta particolare, inizialmente a base di fichi e formaggio, poi Pitagora (forse soltanto omonimo del filosofo: sappiamo che un Pitagora di Samo fece il pugile, ma non si è sicuri dell’eventuale identificazione con il filosofo) nel IV secolo introdusse una nuova alimentazione a base di carne, e osservava una stretta, in particolare prima e durante una gara, continenza sessuale. La sua preparazione era particolarmente dura e sorprendentemente simile a quella degli atleti moderni: corsa per la resistenza, ginnastica, tecniche a vuoto e con l’ombra, colpitori, ed esercizi su tre tipi diversi di sacco (pelli di animale, riempite di semi di fico, cereali e sabbia), per irrobustire braccia e gambe, per perfezionare le tecniche e, scontrandosi con il sacco pesante, per allenarsi a mantenere una certa stabilità. Di certo, se un pancrazista antico tornasse al mondo ai nostri giorni, avrebbe molto da insegnare a parecchi praticanti di arti marziali.


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