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È CON VERO PIACERE CHE ACCOGLIAMO SU QUESTE PAGINE ELETTRONICHE UNA NOSTRA NUOVA COLLABORATRICE: MANUELA SIMEONI. VI PRESENTIAMO IL SUO PRIMO LAVORO… UN INTERESSANTE ARTICOLO SULLA FIGURA DEGLI ANTICHI GLADIATORI. TROVERETE MOLTE SIMILITUDINI ED ACCOSTAMENTI AI PIU’ NOTI PERSONAGGI DEI NOSTRI AMBIENTI SPORTIVI. UN ARTICOLO CHE MOSTRA TUTTA LA SUA AUTOREVOLE PREPARAZIONE SULL’ARGOMENTO… E CHE CI AUGURIAMO SIA IL PRIMO DI UNA LUNGA SERIE.I GLADIATORIDi: Manuela Simeoni(foto tratte fal film "Il gladiatore") Portata alla ribalta qualche anno fa dal film con Russell Crowe, la figura del gladiatore è sempre stata particolarmente interessante per chi, in Europa, si identificasse, in un modo o nell’altro con l’immagine del guerriero. Da atleti (non solo praticanti di arti marziali) a manager rampanti, ai numerosi club di tifosi che ne prendono il nome, in molti hanno subito il fascino di questi “sportivi” dell’antichità, tanto che oggi esistono, ovviamente soprattutto a Roma, alcuni gruppi storici che ne studiano il modo di combattere e si allenano per riprodurlo. Purtroppo però, al di là di questi gruppi seri, i gladiatori sono stati spesso raccontati in maniera da accentuare il lato “esotico” e affascinante della loro professione, nei film come in alcuni libri di argomento storico… Ma è appunto con il film “Il gladiatore” che rinasce un poco, non solo il mito ma anche la voglia di saperne di più sui gladiatori, al di là del film stesso. E nella storia si trovano caratteristiche forse più interessanti del mito medesimo. L’origine stessa di questi
spettacoli appare poco chiara agli occhi degli storici: da dove li presero i
Romani? Il primo spettacolo gladiatorio a Roma fu organizzato nel Ma allora da dove vengono i
giochi gladiatorii? Gli storici sono ancora indecisi tra un’origine
osco-sannita (anche i Campani che organizzarono i giochi del 310 a.C.
appartenevano al gruppo etnico osco, che è quello dei Sanniti), a favore della
quale deporrebbe anche l’antichità di una delle categorie di gladiatori, i
cosiddetti Samnites, di cui parlerò dopo, e un’origine etrusca dei giochi, a
favore della quale vi sono invece le pitture nelle tombe e la parola che
designava l’allenatore-proprietario del gladiatore, lanista (plur. lanistae),
parola etrusca che significa letteralmente “macellaio”. Sia Etruschi che
Campani e Sanniti, potrebbero aver preso questo costume dai Greci; ma è
comunque a Roma e nei suoi territori che lo spettacolo dei gladiatori giunse al
suo sviluppo massimo. Dal I gladiatori che scendevano nell’arena erano di varia estrazione sociale e non semplicemente degli schiavi come forse si è abituati a pensare. Molti erano i gladiatori schiavi, che ottenevano la libertà dopo dieci vittorie, ma vi erano anche prigionieri di guerra e criminali, liberati dopo tre o cinque anni, e persone che sceglievano volontariamente di diventare gladiatori, nonostante questo mestiere fosse bollato dalla legge come infamis, infame. Questo marchio era dovuto forse al fatto che i Romani consideravano i gladiatori alla stregua degli attori teatrali, altro mestiere non ben considerato. Augusto proibì a tutti i membri della classe dei senatori e di quella dei cavalieri, di entrare in un ludus (in questo caso la parola indica una scuola per gladiatori) e di scendere nell’arena, ma già Caligola e Nerone vollero che alcuni membri di entrambi gli ordini prendessero parte agli spettacoli. In età imperiale vi furono anche gladiatrici donne, prima che Settimio Severo proibisse loro di combattere nel 200 d.C.. Ma per le donne probabilmente non era previsto l’allenamento in un ludus. Queste scuole per gladiatori, un misto tra un centro sportivo e una caserma, erano fondate da un privato (almeno fino all’epoca imperiale, quando le scuole di gladiatori passarono in mano all’imperatore, per evitare che un privato si costruisse, dietro questa facciata, un esercito personale) e dirette da uno o più lanistae, allenatori e proprietari dei gladiatori, che sottoponevano ad un addestramento molto duro, che prevedeva anche punizioni corporali, applicate nell’esercito solo a chi non era cittadino romano, perciò in qualche modo i gladiatori, di qualsiasi provenienza fossero, non erano comunque considerati cittadini, a causa del mestiere che svolgevano. L’addestramento era a base di figure, come i moderni kihon (fondamentali) e ren raku waza (tecniche combinate) del karate, tanto che qualche spettatore si lamentava che certi gladiatori combattevano troppo meccanicamente, cioè applicando le combinazioni che erano state loro insegnate a scuola). Finito l’addestramento, i gladiatori erano raggruppati in compagnie come i soldati, e le compagnie erano di proprietà dell’imperatore. Al di là dei condannati a morte, che però probabilmente non venivano allenati ed erano gettati nell’arena, di solito contro animali feroci, senza armi, in una sorta di esecuzione rituale che si trovava già presso gli Etruschi, ogni gladiatore riceveva l’armamento che più si adattava alle sue caratteristiche fisiche. In base alle armi, i gladiatori si dividevano in diversi tipi:
All’inizio le categorie erano solo tre, Samnites, Galli, e Thraeces, gli altri si aggiunsero in seguito soprattutto in età imperiale quando fiorirono questi giochi. I gladiatori combattevano con gladiatori di categorie diverse e, come già detto, anche contro animali. Un particolare tipo di spettacolo era quello in cui l’elmo dei due combattenti non permetteva loro di vedere, costringendoli a combattere alla cieca. Gli spettacoli erano organizzati da privati, sia quando avevano carattere celebrativo, sia in seguito, quando persero questa caratteristica e divennero un munus (dono) non più ad un defunto, ma al popolo. Il privato in questione “noleggiava” i gladiatori da uno o più lanistae e pagava un certo prezzo per ciascuno; se il gladiatore tornava ferito in maniera invalidante o morto, il prezzo era notevolmente alto. In età imperiale fare uccidere i gladiatori nell’arena era quindi un modo, per chi offriva lo spettacolo, di dimostrare la propria generosità… che lo portava a non badare a spese pur di soddisfare il pubblico. Questo era importante perché lo spettacolo era di solito una forma di propaganda elettorale, con cui il candidato dimostrava di volersi occupare anche del divertimento della gente. Secondo alcuni storici, nel primo periodo dei giochi gladiatorii la probabilità di un gladiatore di essere ucciso era di una su dieci, ma in età imperiale un gladiatore aveva un’aspettativa di vita di tre o cinque anni, anche se combatteva due o tre volte all’anno. Quest’ultima affermazione va considerata attentamente, perché si conoscono nomi di parecchi gladiatori che sopravvissero fino alla “pensione” o almeno per diventare essi stessi dei lanistae. I giochi erano annunciati da scritte rosse sui muri della città, antenate dei cartelloni moderni; a tutti è nota, attraverso la miriade di film che l’hanno rappresentata, l’iconografia del combattimento di gladiatori in età imperiale. I gladiatori entravano nell’arena, si disponevano in fila di fronte al palco imperiale (o di chi aveva offerto lo spettacolo) e lo salutavano con la tradizionale formula “morituri te salutant”, ovvero “quelli che stanno per morire ti salutano”, una formula rituale con cui i combattenti dichiaravano di essere disposti a combattere fino alla morte. Si tiravano a sorte le coppie di combattenti e un arbitro controllava, come sui tatami o sui ring moderni, che le armi fossero in regola. Cominciava dunque il combattimento, tra gladiatori di categorie diverse, preceduto o seguito dalle venationes, ovvero gli spettacoli contro animali (anche queste erano una forma più scenografica del sacrificio abituale che dava inizio agli spettacoli e consacrava l’arena) e accompagnato da dei musicisti. Sempre i film ci hanno insegnato che, quando un gladiatore cadeva ferito e incapace di difendersi, era il pubblico a decretarne il destino.
Ma i film non sono la
realtà: innanzitutto il gladiatore sceglieva se morire o appellarsi al
pubblico, alzando un dito; in secondo luogo, almeno nei primi spettacoli, per
ragioni di risparmio, si contrattava precedentemente con i gladiatori e i
lanistae che non ci fossero combattimenti a morte. La decisione sarebbe spettata
teoricamente all’organizzatore dello spettacolo, ma essendo questo un veicolo
di propaganda, la scelta era demandata al pubblico, il quale gridava
“iugula” (sgozzalo) oppure “mitte” (lascialo); non si può però essere
sicuri dei gesti che accompagnavano queste parole: tutti sanno che il pollice
verso l’alto significava la grazia per il ferito e il pollice verso il basso
ne decretava la morte, eppure non abbiamo indizi storici che lo provino
chiaramente, anzi vi sono testimonianze per cui sarebbe esattamente il
contrario, con il pollice verso l’alto (o verso il proprio petto) a
simboleggiare la lama che entra nel corpo dell’avversario e il pollice verso
il basso (o i fazzoletti sventolati) a invitare il vincitore a deporre a terra
la spada. In ogni caso, se il verdetto era
favorevole allo sconfitto, questo riceveva cure mediche tra le migliori in tutta
la città. Altrimenti afferrava la coscia dell’avversario per permettere al
vincitore di sferrare il tradizionale colpo al collo. I cadaveri erano portati
via da degli incaricati in costume, uno vestito da Caronte e l’altro da
Mercurio Psicopompo, che verificavano l’effettiva morte e, se era il caso,
davano il colpo di grazia (ma questo poteva essere dato negli spogliatoi, una
volta portato via il ferito dall’arena). Altri incaricati trascinavano via i
cadaveri con degli uncini. Il vincitore riceveva invece una fronda di palma,
tenendo la quale faceva il giro dell’arena, e un simbolo di vittoria, come una
moneta d’oro, una coppa dorata o una corona. Se non era il suo primo
combattimento era ben pagato; se si trattava di uno schiavo, indossava un
collare di ferro su cui erano segnate con delle tacche le vittorie conseguite: a
dieci otteneva la libertà, ma spesso continuava a fare comunque il gladiatore. Nonostante
il pericolo, la vita dura e il marchio di infamia, sempre più uomini liberi
entravano a far parte delle schiere dei gladiatori e i combattimenti tra uomini
liberi erano preferiti a quelli tra schiavi, come testimonia Petronio nel
Satyricon. Il gladiatore era comunque un mestiere, riceveva una buona paga, dal
secondo combattimento in poi, un’ottima assistenza medica e tre pasti al
giorno, che potevano essere un enorme passo in avanti per alcuni, soprattutto
nelle province o per gli strati più poveri. Anche se l’addestramento era
duro, i gladiatori, una volta addestrati non erano mai legati, incatenati o
confinati nei propri alloggi; ad essere costantemente sorvegliati erano soltanto
i novizi, o i più indisciplinati. In più, nonostante il marchio legale
d’infamia, i gladiatori, a differenza dei loro allenatori che erano
considerati vili speculatori, erano ben considerati nella società, ammirati
come gli atleti moderni soprattutto dalle donne (dai graffiti pompeiani sappiamo
di Celado e altri definiti “gloria e sospiro delle ragazze” o “adorati da
tutte le donne”). Alcuni gladiatori divennero amanti di ricche matrone e
vedove e si dice che persino Commodo non fosse figlio dell’imperatore Marco
Aurelio (che tra l’altro emanò alcune leggi a tutela dei gladiatori
nell’arena) ma dell’amante di sua madre, appunto un gladiatore. Anche nell’antichità come oggi, quindi, il mito del gladiatore era vivo tra la gente: tra gli spettatori dell’arena, che ne ammiravano l’abilità, e tra la gente che cercava di diventarlo (come oggi si può desiderare di diventare atleti di successo) e che trovava nella scuola dei gladiatori un ambiente duro sì, ma dove vigevano un codice d’onore e uno spirito cameratesco di fratellanza che forse era determinante nella scelta di molti di questi individui, soprattutto quando, ex schiavi o ex criminali liberati grazie alle proprie vittorie, decidevano di rimanere comunque tra i compagni e continuare a combattere. Onore e valore erano cardini del modo di pensare dei gladiatori, non esisteva il fuggire dalla battaglia e addirittura i gladiatori appartenenti alla categoria dei Provocatores erano considerati vili dagli altri gladiatori, perché erano gli unici a indossare la corazza, mentre gli altri combattevano a petto nudo. Gli stessi valori sono presenti oggi nelle arti marziali, così come lo spirito quasi di fratellanza che spesso si instaura tra i praticanti di una stessa palestra o dojo o sala d’armi.
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