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ANCORA UN INTERESSANTE ARTICOLO DI LUCIO PICCIOLI, DELLA Makotokai Karate Arezzo, SU UN ANTICO RITUALE DEL SOL LEVANTE… “IL SEPPUKU” O MEGLIO CONOSCIUTO COME “HARAKIRI”.

Seppuku ed Harakiri:
il rito del suicidio

Di : Lucio Piccioli “CENTRO MAKOTOKAI TOSCANA”
(Foto di repertorio tratte dal web)

Seppuku    

Questa settimana abbiamo deciso di parlarvi di un rituale tipico della cultura del Sol Levante che agli occhi degli occidentali può apparire molto cruento e marcato di fanatismo ma che in realtà esprime al meglio la concezione della vita tipica di questo glorioso popolo.

Spesso in alcuni film, libri o anche nel corso di normali conversazioni avrete sentito qualcuno pronunciare l'espressione "fare Harakiri" (e non karakiri come dicono erroneamente in tanti!), forse saprete approssimativamente che questa esprima il concetto di suicidarsi, vi siete però mai chiesti che valore assume nella realtà questa pratica e come sia compenetrata con la profonda concezione dell'onore tipica della cultura giapponese ? Scopritelo nel nostro servizio!

La esposa de Onodera Junai, uno de los 47 ronin se prepara para realizar Jigai y acompañar así a su marido en la muerte    

Harakiri è un termine Giapponese che significa letteralmente "tagliare il ventre", e rappresenta la parte culminante della pratica del suicidio rituale denominato Seppuku, che avviene per sventramento mediante l'uso di una spada corta chiamata Wakizashi. Questa pratica era dapprima tradizionalmente limitata ai nobili ma col tempo venne adottata da tutte le classi sociali fino ad essere riferita ad ogni forma di suicidio d'onore.

La pratica del Harakiri venne introdotta nel Giappone feudale dalla classe dei Samurai, i guerrieri nobili, che sovente vi ricorrevano al fine di sottrarsi al disonore della cattura da parte del nemico; col tempo venne ad assumere anche il valore di una forma di esecuzione indiretta: i nobili ai quali il Mikado, o Imperatore, comunicava che la loro morte era essenziale per il bene dell'Impero dovevano compiere Harakiri.

Ricostruizione di un suicidio rituale giapponese (1897). Sullo sfondo, in piedi, il kaishakunin.

Questa forma di suicidio era preceduta da un complesso rituale che culminava in una pubblica confessione di colpevolezza da parte del nobile stesso; una volta eseguito lo sventramento cerimoniale, questi veniva decapitato, generalmente da un suo uomo di fiducia, con un colpo di Tachi (la spada lunga, simbolo dei Samurai) e quindi la spada veniva consegnata all'Imperatore. Nel caso di Harakiri volontario, il nobile recuperava il suo onore e la proprietà familiare rimaneva intatta; nel caso di suicido forzato, invece la metà dei suoi beni veniva confiscata dallo Stato.

Il Generale Akashi Gidayu si prepare a commettere Harakiri dopo aver perso una battaglia nel 1582. Ha scritto il suo ultimo poema, visibile nel dipinto     Coltello tantō, usato per il seppuku 

Questo era forse l'aspetto più eclatante del suicido rituale, però non l'unico: l' Harakiri veniva infatti praticato anche come gesto di assoluta devozione a un superiore defunto - basti pensare a quello compiuto dai 47 Ronin (vedi articolo in archivio) dopo aver vendicato la morte del loro signore - e persino come una estrema forma di protesta politica. Solo nel 1868, nell'ambito di quel clima di notevoli cambiamenti culturali che ha portato il Giappone ad aprirsi al resto del mondo, si giunse alla abolizione del suicidio come forma obbligatoria di auto esecuzione.

Seppuku     Spada wakizashi, periodo Edo, XIX secolo

La tradizione del Seppuku è comunque giunta inalterata sino ai nostri giorni: nel corso dei più recenti eventi bellici numerosi soldati Giapponesi, degni discendenti dei nobili Samurai, fecero ricorso al suicidio volontario al fine di sottrarsi al disonore della sconfitta o della cattura; ai nostri giorni invece molti uomini d'affari sono soliti ricorrervi in casi di crack finanziari; per non parlare poi degli aderenti alla Yakuza, la famigerata mafia Giapponese, che possono essere tenuti a suicidarsi come estrema forma di punizione per aver fallito i compiti assegnati o aver arrecato disonore al loro "Oyabun" (capo). Come abbiamo accennato questa pratica affonda appieno le proprie radici nella cultura Giapponese dove il guerriero veniva ad incarnare l'ideale dell'uomo integro capace di vivere, di combattere e se necessario di morire con onore per la gloria del proprio signore, il Daimyo.

snap2.jpg      

Quest'ultimo, a sua volta, aveva completo diritto di vita e di morte sui suoi Samurai, basti pensare al riguardo che coloro che avevano dimostrato mancanza di senso dell'onore o dovevano espiare ad un insuccesso, erano tenuti a chiedere al loro signore il privilegio di poter effettuare il suicidio rituale. Il Seppuku, al di là della teatralità e drammaticità del gesto che ci è stata tramandata per mezzo di film, opere teatrali o dalla letteratura di massa, rappresenta comunque uno degli aspetti più evidenti di come la morte veniva considerata dai gloriosi guerrieri Giapponesi. Innanzitutto dobbiamo dire che, contrariamente a quanto succede nella nostra cultura da sempre ottenebrata dalla religione, il suicidio nella cultura nipponica non viene affatto considerato come un peccato ma assume anzi la valenza di una altissima scelta etica.

HANWEI PRACTICAL WAKIZASHI    

Per spiegare meglio il fenomeno inoltre bisogna ricordare che la morte per un Samurai non rappresentava altro che una parte della vita stessa e questi era pronto ad incontrarla in ogni momento: proprio questo rapporto di accettazione della morte, ma sarebbe più giusto parlare di familiarità, costituiva il segreto della loro forza e della loro invincibilità sul campo di battaglia: se riesci a vedere il tuo decesso come un evento naturale, e in conseguenza a vivere la vita con estremo distacco, elimini in un colpo solo tutte le paure e le incertezze che ti possono frenare e rendere vulnerabile in combattimento, aumentando paradossalmente le tue possibilità di uscire integro anche dagli scontri più cruenti.

     Un Mitsubishi Zero in procinto di colpire la the USS Missouri.

Esemplificativa di questo atteggiamento credo sia l'usanza tipica dei gloriosi piloti kamikaze della Seconda Guerra Mondiale: questi infatti celebravano il proprio funerale prima di alzarsi in volo con i loro aerei.

Il kamikaze colpisce la Columbia alle 17:29. L'aeroplano e la bomba penetrano due ponti prima di esplodere, uccidendo 13 uomini e ferendone 44.     Il ponte e torrette di prua della HMAS Australia, nel settembre 1944. L'ufficiale a destra è il capitano Emile Dechaineux, ucciso durante il primo attacco kamikaze il 21 ottobre 1944.     La USS Columbia attaccata da un kamikaze fuori dal Golfo di Lingayen, 6 gennaio 1945

Possiamo in conclusione affermare che la libertà dal pensiero della morte sta alla base della cultura del popolo Giapponese e ne costituisce in alcuni casi uno dei canoni fondamentali, e personalmente ritengo che anche noi occidentali dovremmo sforzarci di riuscire a fare altrettanto per liberarci dalle nostre preoccupazioni, molte volte inutili.

    

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