ANCORA UN INTERESSANTE ARTICOLO DI LUCIO PICCIOLI, DELLA
Makotokai Karate Arezzo, SU UN ANTICO RITUALE DEL SOL LEVANTE… “IL SEPPUKU”
O MEGLIO CONOSCIUTO COME “HARAKIRI”.
Seppuku ed Harakiri:
il rito del suicidio
Di : Lucio Piccioli “CENTRO MAKOTOKAI TOSCANA”
(Foto di repertorio tratte dal web)
Questa settimana abbiamo deciso di parlarvi di un rituale
tipico della cultura del Sol Levante che agli occhi degli occidentali può
apparire molto cruento e marcato di fanatismo ma che in realtà esprime al meglio
la concezione della vita tipica di questo glorioso popolo.
Spesso in alcuni film, libri o anche nel corso di normali
conversazioni avrete sentito qualcuno pronunciare l'espressione "fare Harakiri"
(e non karakiri come dicono erroneamente in tanti!), forse saprete
approssimativamente che questa esprima il concetto di suicidarsi, vi siete però
mai chiesti che valore assume nella realtà questa pratica e come sia
compenetrata con la profonda concezione dell'onore tipica della cultura
giapponese ? Scopritelo nel nostro servizio!
Harakiri è un termine Giapponese che significa letteralmente
"tagliare il ventre", e rappresenta la parte culminante della pratica del
suicidio rituale denominato Seppuku, che avviene per sventramento
mediante l'uso di una spada corta chiamata Wakizashi. Questa pratica era
dapprima tradizionalmente limitata ai nobili ma col tempo venne adottata da
tutte le classi sociali fino ad essere riferita ad ogni forma di suicidio
d'onore.
La pratica del Harakiri venne introdotta nel Giappone
feudale dalla classe dei Samurai, i guerrieri nobili, che sovente vi ricorrevano
al fine di sottrarsi al disonore della cattura da parte del nemico; col tempo
venne ad assumere anche il valore di una forma di esecuzione indiretta: i nobili
ai quali il Mikado, o Imperatore, comunicava che la loro morte era essenziale
per il bene dell'Impero dovevano compiere Harakiri.
Questa forma di suicidio era preceduta da un complesso
rituale che culminava in una pubblica confessione di colpevolezza da parte del
nobile stesso; una volta eseguito lo sventramento cerimoniale, questi veniva
decapitato, generalmente da un suo uomo di fiducia, con un colpo di Tachi (la
spada lunga, simbolo dei Samurai) e quindi la spada veniva consegnata
all'Imperatore. Nel caso di Harakiri volontario, il nobile recuperava il suo
onore e la proprietà familiare rimaneva intatta; nel caso di suicido forzato,
invece la metà dei suoi beni veniva confiscata dallo Stato.
Questo era forse l'aspetto più eclatante del suicido rituale,
però non l'unico: l' Harakiri veniva infatti praticato anche come gesto di
assoluta devozione a un superiore defunto - basti pensare a quello compiuto dai
47 Ronin (vedi articolo in archivio) dopo aver vendicato la morte del loro
signore - e persino come una estrema forma di protesta politica. Solo nel 1868,
nell'ambito di quel clima di notevoli cambiamenti culturali che ha portato il
Giappone ad aprirsi al resto del mondo, si giunse alla abolizione del suicidio
come forma obbligatoria di auto esecuzione.
La tradizione del Seppuku è comunque giunta inalterata sino
ai nostri giorni: nel corso dei più recenti eventi bellici numerosi soldati
Giapponesi, degni discendenti dei nobili Samurai, fecero ricorso al suicidio
volontario al fine di sottrarsi al disonore della sconfitta o della cattura; ai
nostri giorni invece molti uomini d'affari sono soliti ricorrervi in casi di
crack finanziari; per non parlare poi degli aderenti alla Yakuza, la famigerata
mafia Giapponese, che possono essere tenuti a suicidarsi come estrema forma di
punizione per aver fallito i compiti assegnati o aver arrecato disonore al loro
"Oyabun" (capo). Come abbiamo accennato questa pratica affonda appieno le
proprie radici nella cultura Giapponese dove il guerriero veniva ad incarnare
l'ideale dell'uomo integro capace di vivere, di combattere e se necessario di
morire con onore per la gloria del proprio signore, il Daimyo.
Quest'ultimo, a sua volta, aveva completo diritto di vita e
di morte sui suoi Samurai, basti pensare al riguardo che coloro che avevano
dimostrato mancanza di senso dell'onore o dovevano espiare ad un insuccesso,
erano tenuti a chiedere al loro signore il privilegio di poter effettuare il
suicidio rituale. Il Seppuku, al di là della teatralità e drammaticità del gesto
che ci è stata tramandata per mezzo di film, opere teatrali o dalla letteratura
di massa, rappresenta comunque uno degli aspetti più evidenti di come la morte
veniva considerata dai gloriosi guerrieri Giapponesi. Innanzitutto dobbiamo dire
che, contrariamente a quanto succede nella nostra cultura da sempre ottenebrata
dalla religione, il suicidio nella cultura nipponica non viene affatto
considerato come un peccato ma assume anzi la valenza di una altissima scelta
etica.
Per spiegare meglio il fenomeno inoltre bisogna ricordare che
la morte per un Samurai non rappresentava altro che una parte della vita stessa
e questi era pronto ad incontrarla in ogni momento: proprio questo rapporto di
accettazione della morte, ma sarebbe più giusto parlare di familiarità,
costituiva il segreto della loro forza e della loro invincibilità sul campo di
battaglia: se riesci a vedere il tuo decesso come un evento naturale, e in
conseguenza a vivere la vita con estremo distacco, elimini in un colpo solo
tutte le paure e le incertezze che ti possono frenare e rendere vulnerabile in
combattimento, aumentando paradossalmente le tue possibilità di uscire integro
anche dagli scontri più cruenti.
Esemplificativa di questo atteggiamento credo sia l'usanza
tipica dei gloriosi piloti kamikaze della Seconda Guerra Mondiale: questi
infatti celebravano il proprio funerale prima di alzarsi in volo con i loro
aerei.
Possiamo in conclusione affermare che la libertà dal pensiero
della morte sta alla base della cultura del popolo Giapponese e ne costituisce
in alcuni casi uno dei canoni fondamentali, e personalmente ritengo che anche
noi occidentali dovremmo sforzarci di riuscire a fare altrettanto per liberarci
dalle nostre preoccupazioni, molte volte inutili.
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