L’uso delle anche
Di: Lido Lombardi
del 27/02/2009
Tutti gli insegnanti di karate, iniziando dagli Allenatori fino
ai Maestri più evoluti nelle loro lezioni hanno sempre enfatizzato
messo in risalto e predicato, un uso corretto delle anche per
ottenere una tecnica efficace di karate. Spesso purtroppo alle
corrette enunciazioni, non sono associati altrettanti validi esempi
pratici.
Eppure
il cardine di tutta la pratica sta proprio nei movimenti del bacino.
Mai come in questo caso possiamo affermare che tra la teoria e la
pratica c’è una distanza enorme. Da quando è nato il mondo, “dire” è
sempre stato più facile di “fare” soprattutto in questa disciplina
che come abbiamo spiegato in altri articoli, ottenere un gesto
raffinato non è cosa da poco. Spesso ci si va ad incastrare in esami
sofisticati e complessi per dan e qualifiche quando basterebbe far
mettere il candidato in posizione Heiko Dachi e far portare in modo
alternato chudan choku tsuki (pugno diretto) per capire se utilizza
le anche in modo corretto. Il motivo di una difficoltà così evidente
è dovuta principalmente ad una scarsa capacità di gestire tutte le
componenti che concorrono a generare movimenti rilevanti sotto il
profilo tecnico.
E’ un elenco molto lungo: respirazione, contrazione e
decontrazione muscolare e loro sincronismo, attivazione corretta
delle catene muscolari impegnate nella tecnica specifica,
attivazione dell’energia che genera la potenza della tecnica,
velocità e compenetrazione della parte superiore ed inferiore del
corpo unita dal tanden (le anche). Il problema più grande è dovuto
alla difficoltà di gestire una contrazione muscolare adeguata che
controlla l’unione delle componenti di forza.
Le cose cambiano quando si arriva a capire che l’efficacia e la
potenza di una tecnica non sono proporzionali ad un impegno e una
contrazione muscolare esagerata bensì ad una velocità sempre
adeguata alla quantità di forza che si vuole sviluppare. Ad esempio,
se voglio portare una tecnica al mio 30% di intensità, devo essere
in grado di concentrare questa quantità di energia che ho stabilito
in modo totale. In questo caso il “totale” corrisponde al 30%. Nel
caso contrario assistiamo ad una dispersione di energia che genera
sicuramente un problema tecnico, amplificato guarda caso da un uso
anomalo delle anche. Il loro utilizzo corretto contribuisce a
concentrare l’energia la quale si genera o con vibrazione o con
rotazione delle anche.
Visivamente
si intuisce la differenza, ma spesso la scarsità della
manifestazione fisica dipende da una carenza nella gestione delle
componenti che abbiamo elencato sopra. Nella vibrazione delle anche
più che nella rotazione avvertiamo una sensazione di disagio quando
sentiamo debole la tecnica. Ci rendiamo conto che manca qualcosa. I
più fortunati piano piano insieme al maestro attento e preparato
forse riescono anche ad individuare ciò che manca, ma rimane il
problema di non riuscire comunque a sentire la tecnica nel modo
corretto. Il processo di apprendimento e perfezionamento a questo
livello, implica una grande forza di volontà e un impegno vero a
voler arrivare a questo traguardo, che è sempre stato per pochi.
Quando si arriva ad un punto così importante della pratica, ci si
accorge di essere giunti ad un modo nuovo di sentire il karate.
Quel gesto o movimento che per tanto tempo ha vinto nella lotta
contro noi stessi, viene finalmente compreso e gestito con una nuova
consapevolezza. Non a caso questo cambiamento è associato ad una
crescita sull’utilizzo delle anche. Dopo tanti anni di pratica e di
insegnamento ho potuto constatare che per molti karateki, il tempo
trascorre ma il livello tecnico rimane invariato. Cresce
l’esperienza nell’approccio alla pratica, all’insegnamento ma il
livello tecnico non migliora.
Come un lavoratore che dopo trent’anni si comporta allo stesso
modo o commette gli stessi errori di quando ha iniziato. A mio
avviso ci sono due aspetti che vanno considerati per capire i motivi
legati a questa stasi tecnica. Il primo lo diciamo per rimarcare il
concetto anche se è scontato perché riguarda la volontà del singolo
di migliorare. Il secondo aspetto è legato al modo e metodo con cui
ci si allena. Sul primo non c’è molto da fare perché è legato alla
soggettività e alcune volte anche alla presunzione di credere di
essere ad un livello molto alto quando invece si è appena
sufficienti. Possiamo chiamare questi praticanti “allievi evoluti”
piuttosto che “Maestri”. A questo punto non resta che lavorare sul
secondo aspetto che abbiamo considerato perché è l’unico mezzo che
porta ad una crescita tecnica considerevole. All’inizio, o anche
dopo qualche anno di pratica la tendenza è quella di voler conoscere
i kata, imparare la sequenza di altri, e questo può essere
comprensibile. Giunti però ad un discreto numero di anni di pratica
che possiamo identificare in 10, 15 forse è il caso di cominciare a
fare delle verifiche sul movimento delle anche.

Se umilmente ci si accorge che molti aspetti non sono stati ben
assimilati probabilmente è il caso di rivedere il metodo di
allenamento. Questo argomento verrà affrontato nei prossimi
articoli. |