Kata: Lo Stile e l’Applicazione
Kata: il Modello. L’insieme dei movimenti codificati in una
sequenza logica e preordinata ha permesso di mantenere inalterato il
bagaglio tecnico del karate conservando tutte le peculiarità
tramandate dagli antichi maestri. Per lo stile Shotokan, il maestro
Funakoshi ne ha permesso lo sviluppo e ciò che si pratica ai nostri
giorni è frutto del suo insegnamento. Sappiamo che lo Shotokan
insieme al Wadoryu, al Gojuryu, allo Shitoryu, allo Shotokai e altri
minori, è uno degli stili di karate.
Lo stile si differenzia essenzialmente nei kata. Senza tornare
indietro nella storia, che peraltro è sempre frutto nella maggior
parte dei casi di una tradizione orale, cerchiamo di capire perché
dagli anni 60 in poi e cioè dopo la morte del maestro Funakoshi
avvenuta nel 1955, gradualmente ma inesorabilmente si è arrivati ad
una confusione sempre maggiore tra lo stile e l’applicazione.
Anche se può sembrare un controsenso, una situazione analoga si
era già verificata nell’immediato dopoguerra. In quel periodo,
(1948), il Maestro Funakoshi ebbe premura di incontrarsi presso
l’Università di Waseda con alcuni allievi diretti, per dare vita
alla fase di standardizzazione dei kata. Lo scopo di quella riunione
era di stabilire dei criteri di unificazione a cui tutti i
praticanti lo stile shotokan si conformassero, dato che nel periodo
post bellico i kata avevano subito svariate interpretazioni
personali.
E’ facile intuire che le interpretazioni personali avvenivano
all’interno dello stesso stile da parte di chi trasferiva gli
insegnamenti del Maestro Funakoshi. Forse con una probabilità
maggiore possiamo attribuire la colpa a chi insegnava pur avendo
avuto scarsi contatti col Maestro, oppure anche ad allievi diretti
che con molta presunzione avevano voluto dare al gesto del kata
un’interpretazione diversa. Eppure il Maestro nella sua frase: “Il kata è perfezione dello Stile, la sua Applicazione è un’altra cosa”
aveva cercato di chiarire fin troppo la differenza esistente tra il
gesto e il suo utilizzo.
Dall’analisi del suo pensiero, si è portati a credere che in lui
ci fosse una grande preoccupazione sulla comprensione corretta dei
due aspetti. La situazione attuale, ci conferma che i suoi timori
erano fondati. Nonostante i suoi sforzi, la confusione rimane.
Quello che succedeva allora, lo riscontriamo nella pratica dei
nostri tempi. Sempre di più assistiamo a diatribe tra maestri sulla
corretta espressione del gesto, che il più delle volte viene
valutato sul modo di applicarlo piuttosto che sulla sua originalità.
A questo punto ci si può chiedere, con che sicurezza attribuire
questa originalità alle tecniche e ai gesti contenuti all’interno
dei singoli kata.
Abbiamo detto che non potendo ritornare alla notte dei tempi, ci
affidiamo al maestro che ha gettato le basi degli attuali
insegnamenti, che nel caso dello Shotokan è il Maestro Funakoshi. In
epoca più recente, sicuramente possiamo riferirci al Maestro
Nakayama, che ha proseguito l’insegnamento dello stile shotokan in
conformità con quelli che erano i canoni e la standardizzazione
avvenuta nell’Università di Waseda.
Dalla scuola del maestro Nakayama, diversi maestri si sono
staccati portando l’insegnamento in tutto il territorio Europeo. In
Italia, dobbiamo quasi totalmente lo sviluppo e la trasmissione
dello Shotokan all’opera del maestro Shirai.
Altri maestri sempre
provenienti dalla scuola del Maestro Nakayama, hanno operato di più
nel resto d’Europa. A questo punto, è inevitabile chiedersi il
perché in quasi cinquant’anni di insegnamento Shotokan, in Italia e
in Europa siamo arrivati a tanti modi diversi di interpretare lo
stesso kata. Non possiamo certo pensare che il Maestro Shirai, il
Maestro Kanazawa o il Maestro Ochi non avessero capito la differenza
tra stile e applicazione.
A loro potremmo imputare solo qualche piccola modifica in uno
specifico kata, per far studiare agli stage lo stesso passaggio in
modo diverso. Sicuramente una colpa maggiore di queste modifiche, è
da attribuire a tutti quei maestri che non avendo capito veramente
la differenza tra lo stile e l’applicazione, hanno proposto
soluzioni che spesso in un’analisi attenta del gesto, si
identificano come parenti lontani della tecnica originale, e sono
oltretutto scarsamente applicabili e questo crea un problema molto
più grande. Anche trovando delle giustificazioni valide al movimento
del kata, si va ad alterare la tecnica vera e questo diventa ancora
più devastante, quando peraltro il movimento viene privato delle
leggi della fisica, della dinamica e della fisiologia del nostro
corpo.
Basterebbe rispettare questo per capire se un movimento o una
tecnica di un kata possono essere più o meno giusti. Purtroppo però,
per convinzioni personali, presunzione e nei casi peggiori
ignoranza, non si riescono a sanare queste continue discussioni che
spesso peraltro in campo agonistico sono causa di valutazioni
arbitrali discutibili.
Torniamo al punto: la confusione tra lo stile e l’applicazione.
Per fare maggiore chiarezza, proviamo a dare la definizione di stile
e poi di applicazione. Abbiamo detto che le differenze di stile sono
dovute ai kata. Abbiamo visto poi come alcuni kata che sono comuni a
più stili, contengono tecniche diverse pur mantenendo la struttura e
l’embusen (tracciato di esecuzione) molto simili. A questo punto,
per dare una spiegazione dobbiamo inevitabilmente tornare indietro
di circa millecinquecento, milleseicento anni fa.
Ad Okinawa, prima segretamente, poi liberamente, fiorirono le
prime scuole di karate nelle tre provincie, Shuri Naha e Tomari. Tra
queste scuole, nel XVIII secolo fa spicco Sakugawa, nativo della
città di Shuri, dove più tardi nascerà il Maestro Funakoshi. Dopo la
restaurazione Meiji del 1868,il regno dei Tokugawa venne abbattuto e
il potere tornò nelle mani dell’Imperatore. In questo periodo le
arti marziali conobbero molti anni di decadenza per la ripresa dei
rapporti con l’Occidente e con la sua cultura, dove poco interessava
un combattimento che portava all’eliminazione fisica
dell’avversario.
Le palestre nipponiche erano deserte, e l’antico patrimonio del
budo rischiava di diventare solo un ricordo, finchè qualcuno in modo
geniale cercò di adattare le arti marziali ai nuovi tempi. La
pratica non doveva avere come fine immediato la vittoria fisica
dell’avversario, ma doveva servire per migliorare il carattere fino
ad una elevazione spirituale. Così, il termine jutsu divenne do
(ricerca della via). Da questo periodo in poi ad Okinawa, divenuta
ormai del tutto giapponese, il karate si sviluppò sempre di più per
opera degli insegnamenti dei Maestri considerati gli antichi
capiscuola: Kenwa Mabuni per lo Shito Ryu, Chojun Miyagi per il Goju
Ryu, e Gichin Funakoshi per lo Shotokan.
Partendo da qui per semplicità, possiamo supporre che ogni
maestro, ha adattato lo stile non solo alla sua corporatura, ma
anche al suo modo di pensare e di interpretare la disciplina. Da qui
sono nate le differenze tra uno stile e l’altro. I maestri
capiscuola, partendo dalla base antica dei kata, hanno rivisto gesti
e tecniche, alle quali hanno attribuito un significato divenuto
peculiare tra un kata e l’altro. A questo punto, possiamo affermare
che all’interno dello stesso kata, le tecniche si differenziano
creando lo stile specifico, il quale rappresenta la chiave di
lettura dell’applicazione cioè del suo significato, a volte
scontato, a volte nascosto (kakushi).
Il punto è proprio questo. Nello stesso stile i movimenti
dovrebbero mantenere l’originalità, e l’applicazione deve dare vita
e significato alle tecniche. E’ più facile mantenere questa
condizione con il bunkai tradizionale, mentre con il bunkai ohio
(l’applicazione libera del Maestro) il quale permette di spaziare
nell’applicazione, il rischio di discostarsi troppo dal movimento
originale è maggiore. Spesso, le due realtà, bunkai tradizionale e
ohio si mescolano per fare ulteriore chiarezza e dare più
significato al gesto che altrimenti è quasi banale. C’è da
chiedersi, se lo strumento utilizzato dai maestri (Bunkai Ohio), per
dare significati più importanti alle tecniche dei kata sia quello
che al contrario ha aggiunto confusione sulla differenza tra stile e
applicazione.
Certamente, se stile e applicazione non sono distinti e ben
compresi, rischiano di diventare come un cane che si morde la coda.
Per citare una famosa domanda, è come chiedersi se è nato prima
l’uovo o la gallina. Questo poco interessa, perché sappiamo che
dall’uovo nasce il pulcino e la gallina fa l’uovo. Non fa differenza
sapere se il maestro che ha codificato il kata ha pensato prima a
come applicarlo e poi ha creato il gesto, o al contrario, prima ha
creato la tecnica e poi ha pensato come utilizzarla. Per la nostra
pratica, dato che sviluppiamo dei movimenti che ci sono stati
tramandati, la situazione migliore dovrebbe essere quella nella
quale ad esempio Bassai Dai viene eseguito da tutti allo stesso
modo, poi nella trasposizione del gesto (applicazione), a parte
l’aspetto ortodosso, ogni maestro trova il suo significato e la sua
interpretazione. Questa ovviamente è una situazione idilliaca. Al
punto in cui siamo, è quasi impossibile tornare indietro. Il Maestro
Funakoshi nel 1948 a Waseda, si incontrò con una manciata di
allievi. Provate ad immaginare di mettere d’accordo gli attuali
capiscuola delle diverse organizzazioni che disciplinano il karate
in Italia e in Europa. E questo ovviamente non riguarda solo lo
Shotokan. In queste condizioni, parlare di originalità è pura
utopia.
L’unica cosa da fare è accettare una standardizzazione delle
tecniche o dei passaggi specifici dei kata più “manipolati”. Ma
anche questo, può servire solo per trovare un compromesso tra le
diverse interpretazioni, ma non risolve il problema della differenza
tra stile e applicazione. Lo stile e l’applicazione potranno solo
somigliarsi, ma non saranno mai uguali. E questa è un’altra grande
differenza. Se è vero che il kata manifesta l’idea di combattere
contro gli ormai soliti e famosi avversari immaginari, non possiamo
applicare il kata così come è stato codificato. Se facciamo uno
spostamento in avanti nell’applicazione dovremmo prevedere un
arretramento dell’avversario, ma non sempre facendo un passo
indietro, perché in un combattimento vero questo è poco probabile.
Pertanto, per dare un significato più verosimile ai movimenti del
kata, durante l’applicazione dobbiamo proporre delle variazioni sia
sul movimento che sullo spostamento altrimenti il tutto diventa poco
credibile e scarsamente realizzabile. Anche questo è racchiuso nella
frase del Maestro Funakoshi il quale quando si riferisce allo stile,
non intende solo l’appartenenza allo Shotokan, ma anche al modo
raffinato di esprimere i gesti e le tecniche.
Nella speranza di aver fatto maggiore chiarezza, possiamo
concludere che lo Stile oltre all’appartenenza rappresenta
l’eleganza, la raffinatezza e l’espressione tecnica corretta del
gesto mentre l’applicazione ne risalta l’utilizzo rendendolo più
visivamente comprensibile. Se così non fosse, c’è da chiedersi
perché nei kata la stessa tecnica si ripete avanti, di lato o sul
posto. Forse per risaltare e perfezionare lo stile? Chissà! Come
scrisse il poeta “ai posteri l’ardua sentenza”. L’unica cosa certa
sulla quale i praticanti attenti sono concordi è che al di là
dell’applicazione, la pratica continua del kata conduce ad un
miglioramento tecnico considerevole. Ripetere più volte il gesto o
il movimento, vuol dire analizzarlo sentirlo e viverlo a tal punto
da comprenderlo fino a farlo diventare “raffinato” come diceva il
Maestro Funakoshi. La sua applicazione rimane comunque “un’altra
cosa”.
“Il karate è una delle arti marziali più raffinate, chiunque
si vantasse di quante assi o tegole può rompere con un colpo della
mano ha una visione limitata di cosa sia veramente questa
disciplina. Quella è solo la dimostrazione della forza che si può
acquisire con la pratica”
(M° Funakoshi)
Lido lombardi
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